Due bombe sono esplose ieri sera a Zanzibar, in Tanzania, colpendo la cattedrale anglicana e un bar per turisti, senza fare vittime. Sono gli ultimi episodi di una serie cominciata nel 2013: dodici mesi fa, nell’arcipelago di Zanzibar, è stato ucciso il sacerdote cattolico Evarist Mushi; si sono verificate, inoltre, aggressioni con l’acido a religiosi, volontarie britanniche e a un leader musulmano moderato. Sulla terraferma, ad Arusha, una bomba contro una chiesa ha provocato 4 morti a maggio. In questi eventi, dice il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar es Salaam, “c’è una componente religiosa, ma non si può essere sicuri al 100% che si tratti solo di questo” perché “alcuni politici prendono a pretesto queste relazioni complicate tra cristiani e musulmani per fare i propri interessi”. Il rischio è invece “che un fondamentalismo che viene da fuori diventi predominante”, prosegue il porporato. Già molti giovani tornano dagli studi nella penisola araba “convinti che l’Islam debba prendere il controllo di tutto”. Ma anche i fondamentalisti evangelical, sostiene il cardinale, ostacolano “con posizioni estreme” il dialogo con i musulmani moderati, cercato dalla Chiesa cattolica e da molti protestanti. Quest’ultimo, per il card. Pengo, è “la strada per il futuro” e può essere facilitato dalla riscoperta del fatto che anche “nelle famiglie ci sono esponenti delle diverse fedi”. Monsignor Rogatus Kimaryo, vescovo di Same – diocesi nel Nord del Paese – confida ad Aiuto alla Chiesa che Soffre la sua preoccupazione per la possibile radicalizzazione della comunità musulmana locale. “Abbiamo paura che quanto sta accadendo in Nigeria possa riverberarsi in altre nazioni africane”. I 45 milioni di tanzanesi sono cristiani per il 53 per cento – tra questi 12 milioni di cattolici – musulmani per il 32 per cento e animisti per il 13 per cento. Il Paese ha finora vissuto una storia pacifica e per questo, afferma il presule, il crescente interesse dimostrato da gruppi sparuti per l’islamismo radicale causa molta apprensione tra i fedeli. Monsignor Kimaryo testimonia che la coesistenza tra musulmani e cristiani è stata “fin qui all’insegna di una completa armonia”. E ringrazia ACS per il forte sostegno al dialogo interreligioso a Same ed in altre diocesi della Tanzania. “Ma se gli sviluppi negativi a cui assistiamo in Africa Orientale dovessero propagarsi al resto del continente, – avverte – le conseguenze sarebbero deleterie per entrambe le comunità religiose”. Per monsignor Kimaryo, la Conferenza episcopale deve immediatamente rendere partecipe delle proprie preoccupazioni il governo e i leader islamici. I problemi, precisa il presule, non sono causati dalle autorità musulmane – “assolutamente affidabili e collaborative” – ma da isolate fazioni incontrollabili che si sentono “perennemente discriminate” e ne attribuiscono la colpa all’Occidente e alla Chiesa. Il vescovo di Same auspica dunque una piena collaborazione tra personalità religiose, perché “se non interveniamo ora per contrastare il propagarsi del fondamentalismo, non oso immaginare cosa potrebbe accadere in futuro”.
Le ragioni che hanno motivato l’adesione degli africani all’Islam non sono state di natura religiosa (la superiorità ad esempio del messaggio religioso del Corano nei confronti sia di quello delle religioni tradizionali o di quello cristiano), ma piuttosto di natura meramente sociologica. Infatti, l’Islam raggiunse il massimo della propria espansione in quella regione proprio nel periodo coloniale, quando venne abolita la tratta degli schiavi, motivo di profonda ostilità tra gli arabi (mercanti di schiavi) e gli africani. Nella continua ricerca di metodi sempre migliori della razionalizzazione dello sfruttamento delle terre agricole, della mano d’opera e di tutte le altre risorse naturali disponibili, il colonialismo ha sconvolto progressivamente e irreversibilmente l’organizzazione e il governo tradizionale dei popoli, i rapporti etnici o tribali, i sistemi economici e di produzione, le credenze e gli antichi centri di culto e di potere, che servivano da punti di riferimento per le popolazioni nei propri villaggi. Nell’incapacità, da un lato, di resistere alle trasformazioni imposte dal regime coloniale e, dall’altro, nello sfuggire all’adesione alla cultura e alla religione europee troppo estranee, l’Islam apparve dotato di molti elementi affini alle culture e alle religioni africane. Infatti, l’Islam, come la maggior parte delle religioni tradizionali africane, è molto più di una religione pura e semplice, nel senso di un rapporto personale fra l’uomo ed un essere trascendente. Esso è un modus vivendi che pervade tutta l’esistenza del credente. In tutte le difficoltà della vita, ai popoli africani sradicati o delusi dal proprio universo socio-religioso tradizionale, l’Islam offrì un nuovo quadro, più sicuro e rassicurante come quello precedente. Mentre la religione cristiana si presentava ed era percepita come la religione dell’occupante ed al servizio degli interessi dell’occupante, una nuova solidarietà all’interno della comunità musulmana sostituì il villaggio e la solidarietà tribale senza cambiare le leggi e le abitudini di vita del gruppo.
* Le fonti dell’articolo sono tratte dai siti: SIR e osservatorio analitico.com