In quel periodo ero in licenza a Dublino per frequentare un corso intensivo di lingua inglese. Mi trovavo in un pub con i compagni di corso. Improvvisamente, un profondo silenzio si diffuse in tutto il locale e la voce del cronista televisivo divenne sempre più chiara, attirando il nostro sguardo sul monitor. Il macabro spettacolo delle Torri Gemelle non poteva non sconvolgerci. La vista delle Torri, con gli occupanti che si gettavano dalle finestre per fuggire dalle fiamme, fu agghiacciante. Il giorno seguente, partecipai a una veglia di preghiera per commemorare le vittime innocenti di quella strage. Cittadini di paesi diversi uniti nel lutto e dall’inevitabile necessità di capire il perché: quali motivazioni si celano in tale gesto? Quale odio spinge una persona a uccidersi pur di uccidere? In che tipo di terreno tale odio è potuto germogliare così rigoglioso e forte? Perché alcuni governanti e intere folle, invece di unirsi al lutto, festeggiarono? In quei giorni la maggior parte degli europei era incredula, incapace di comprendere le motivazioni dei dirottatori e di un simile vergognoso atto contro persone indifese. I giornalisti parlavano di terroristi, criminali, l’azione di un folle. Tuttavia, in tutti i paesi occidentali, le Forze Armate elevarono il proprio stato d’allertamento e negli aeroporti civili furono incrementate le misure di sicurezza, lasciando presumere la portata non limitata di tale evento.
L’attentato dell’11 settembre 2001 è solo il primo di una lunga escalation di azioni criminali, con le quali la minaccia terroristica islamica ha iniziato a pesare sull’Occidente e sui Paesi arabi che con esso intendevano dialogare. In quegli anni, i giornali rivelavano il coinvolgimento di studenti e musulmani europei nelle file della jihad e la localizzazione dei centri di finanziamento, degli stessi integralisti, negli Stati dell’Unione Europea. L’Europa fu violentemente scossa da azioni terroristiche: le esplosioni nella stazione ferroviaria di Madrid nel 2004 e nella metropolitana di Londra nel 2005; l’assassinio ad Amsterdam del regista Theo van Gogh, critico dell’Islam, che seguiva quello di Pym Fortuyn, politico noto per il suo orientamento antimmigrazione; le violenti reazioni in Europa e contro uomini, luoghi e simboli occidentali nei Paesi arabi, a seguito delle caricature di Maometto, pubblicate dal giornale danese “Jyllands-Posten” e dopo la lezione magistrale di Benedetto XVI, all’Università di Regensburg. Intanto, in Germania, da un sondaggio condotto dal docente universitario Wilhelm Heitmeyer, tra giovani immigrati turchi, emergeva che: per 1/3 degli intervistati quella islamica sarebbe dovuta diventare ovunque la religione di stato; il 56% di loro dichiarava che non voleva adattarsi ai costumi occidentali e che riteneva più giusto vivere secondo l’Islam; oltre un terzo si era detto pronto a usare la violenza contro i non musulmani, se ciò poteva giovare alla comunità islamica; il 40% pensava che il sionismo, l’Unione Europea e gli Stati Uniti costituissero una minaccia per il mondo islamico. Questi sono solo alcuni degli eventi accaduti, che rivelarono la presenza di un’organizzazione terroristica ben radicata sul territorio europeo, ma anche una forte pressione islamica sulla libertà di espressione.
In questo contesto, è nato il mio interesse verso l’Islam e il fondamentalismo islamico ed è maturata l’idea che, tali termini non si esauriscono l’uno in religione e l’altro in un’estrema applicazione della stessa.
Per chi, come la maggioranza degli occidentali, concepisce la religione come qualcosa che appartiene alla dimensione spirituale dell’esistenza, l’Islam appare un fenomeno nuovo e per certi versi incomprensibile. Esso si propone, infatti, come din-dunya-dawla, ossia religione-società-Stato, incorporando dimensioni private e pubbliche in una sola grande realtà. L’Islam non è soltanto un sistema di fede e di culto, o per così dire una sfera dell’esistenza distinta da altre sfere. Esso indica, piuttosto, il complesso delle norme che regolano la vita quotidiana, comprendendo elementi di diritto civile, penale e persino costituzionale. Tale connotazione non ha equivalenti nel mondo occidentale, proprio perché identifica un’identità e un’appartenenza politica che trascendono ogni altra. Ci troviamo di fronte a una civiltà che non possiede dei semplici confini politici, ma che si definisce tramite l’accettazione all’Islam e s’identifica nella umma: la “comunità” nella quale si riconosce un miliardo e 200 milioni di persone. E’ una realtà senza dubbio composita e articolata che, tuttavia, presenta molti tratti comuni, non solo dal punto di vista rituale, ma anche nei modelli di comportamento che propone. Non si tratta, certo, di sostenere uno scontro di civiltà né tanto meno confondere una parte per il tutto. Non possiamo, però, nascondere che, le differenze fra la cultura (in senso antropologico), d’impianto islamico e quella europea sono reali.
Una chiara esemplificazione di tale differenza viene da Franco Cardini, storico e saggista, il quale afferma: “Se indugiassimo un istante a considerare una piccola secondaria banale realtà, tutto ci sarebbe più chiaro. Essa consiste in ciò: un occidentale moderno può essere o non essere cristiano ma, se lo è, non può certo sentirsi scandalizzato né lacerato né in contraddizione con se stesso dalla constatazione che, secondo lui, una parola è solo una parola e non ha né stretto né immediato rapporto con la realtà delle cose, la quale invece ha rapporto con la loro sostanza. Un musulmano, (a meno che non conosca in modo non superficiale il mondo dell’Occidente e la sua cultura), non solo ha difficoltà a considerare le parole dei puri segni convenzionali, ma non riesce neppure a concepire con troppa chiarezza il fatto che si possa essere occidentali senza essere cristiani. Per i musulmani, specie e soprattutto per quelli che vivono in Dar al-Islam, Occidente e Cristianità sono tutt’uno […]. Questa radicale diversità di prospettive discende tutta, anche se non soltanto, in ultima analisi, da una differenza storica fondamentale: l’atteggiamento opposto del Cristianesimo e dell’Islam rispetto al contesto nel quale le due religioni sono nate e a istituzioni e valori ad esse preesistenti”.
Oggi assistiamo a un movimento di rinascita islamica, che reclama la volontà di creare una società chiusa, controllata, non critica, che segua letteralmente la scrittura del Corano, scevra da interpretazioni contemporanee, bensì ferma a 1400 anni fa. Il presupposto fondamentale di tale visione è l’esperienza del profeta Maometto a Medina.
Khaled Fouad Allam, nella prefazione dell’opera “Islam, dall’apostasia alla violenza” redatta dal padre gesuita Samir Khalil Samir, afferma: “viene a crearsi, così, un totalitarismo di tipo valoriale, perché parte dal presupposto che tutto ciò che attiene all’esperienza mitica del Profeta a Medina, rappresenti di per sé un’esperienza guida. Esso costruisce la sua utopia su un’esperienza del passato che trascende la storia, e tutto ciò che viene dopo il 632 non è che deperimento della stessa. Non esiste più un contesto, ma solo un testo, e a esso si riconduce una prassi e una visione che scardina lo spazio-tempo. E’ dunque un mondo che si isola, che si pone come muro all’Occidente, perché la sua utopia non può convivere con ciò che le è estraneo; è un totalitarismo valoriale, perché ritiene che l’Islam sia il bene per definizione, e utopico perché è proprio dell’utopia annullare la storia”.
Tali caratteristiche lasciano ampi spazi per l’affermazione di movimenti fondamentalisti, che perseguono l’obiettivo di islamizzare il mondo.
Il tanto criticato discorso di Benedetto XVI a Regensburg ha insegnato un modello di dialogo e di confronto universale. In fondo che cosa ci ha detto Benedetto XVI? Ha posto un monito su due tentazioni opposte e parallele che vive il nostro tempo: da una parte una razionalità svuotata dallo spirito, ragione senza fede, in Occidente; dall’altra, una razionalità diventata violenza, fede senza ragione, nell’Islam, (e vale la pena precisare che ciò non significa che tutto l’Islam ha rigettato la ragione). Non è forse noto tale rischio? Non c’è forse il rischio nell’Islam di svuotare la fede separandola dalla ragione e dal pensiero critico? Nel dialogo, spesso, si tende a “nascondere” e a non parlare delle differenze. Questo si può ammettere all’inizio: se devo cominciare un rapporto, di certo non mi metto anzitutto a definire quanto mi divide dall’altro. Ma il rapporto deve approfondirsi. Benedetto XVI ha fatto comprendere che dire la verità, dire delle cose che fanno male, non è un insulto, ma una strada di guarigione. Se non c’è questa volontà, allora abbiamo perso l’interesse o il senso del dialogo sincero in un rapporto autentico. E’ l’inesorabile scivolamento nel vuoto del relativismo culturale e dell’indifferenza.
Questo blog avrà il compito di fornire argomentazioni che, talvolta, possono sembrare impopolari o comunque lontane dalla vulgata che si è venuta affermando in questi anni. Pur consapevole che gli argomenti affrontati infiammano e dividono l’opinione pubblica, non ho voluto nascondere o depotenziare le provocazioni rivolte a un certo modo politically correct di intendere il rapporto tra culture e fedi diverse. L’intenzione è di porre le condizioni per far crescere questo rapporto e non per mortificarlo, con la trasformazione del diritto alla differenza in diritto all’indifferenza. di Severis.
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