Gianpietro Ghidini in 3 anni ha tenuto 800 incontri in oratori, piazze, teatri, spiagge, tv e al «Cocoricò». La sua fondazione, Pesciolino rosso, ha 280mila like su Facebook.
D’estate, passeggiando sulle spiagge di Riccione, tra castelli di sabbia, creme abbronzanti e ombrelloni, ci si può imbattere in una scena strana: sdraio rivolte non verso il sole, ma verso un 56enne, che al pubblico in costume da bagno pronuncia parole non abituali in riva al mare d’estate. «Dopo quella notte, avevo due sole possibilità: passare il resto della vita a chiedere “Dio dove sei? Come hai potuto permettere questo”? oppure dare un senso alla morte assurda del mio Ema.
Ho scelto la seconda». In che modo? «Impegnandomi per evitare che ne accadano altre così». Le stesse frasi Gianpietro Ghidini le dice in montagna, a Vinadio, in provincia di Cuneo, dove «scuote» un centinaio di adolescenti del «Campo Giovanissimi» di un oratorio del torinese (San Bernardo di Carmagnola). C’è un silenzio surreale, dopo l’intervento di Gianpietro. Uno dopo l’altro, i giovani – in lacrime – stringono in un abbraccio questo padre che ha appena raccontato loro la sua storia, unita a quella di suo figlio Emanuele che finisce il 24 novembre 2013.
Ha 16 anni, Ema, quando quella sera d’autunno saluta Gianpietro, la mamma e le due sorelle, e va a una cena nel suo paese nel bresciano, Gavardo. È in compagnia di amici più grandi di lui. La serata degenera. Ema accetta di provare un «francobollo»: è un acido, che qualcuno dei suoi amici (amici?) più grandi, maggiorenni, gli regala, insistendo. Ema fa «la stupidata», come la chiamerà suo padre. Una stupidata che lo porta via per sempre. Perché quel «francobollo» gli «sale» male.Gli annienta la lucidità. E la sua notte diventa ancora più buia. Si ritrova nei pressi di un ponte sul fiume Chiese. Non ragiona più. È fuori di sé. È un attimo, e si butta giù. Le acque gelide lo inghiottiscono. Lo ritroveranno dieci ore dopo a distanza di duecento metri. Morto annegato.
C’è una stranezza, in questa tragedia della droga: Ema si è gettato esattamente nello stesso punto dove una decina di anni prima, accompagnato da suo padre, aveva liberato un pesciolino rosso. E anche il «tuffo» del pesciolino era finito malissimo: fu mangiato da un’anatra. A papà Gianpietro scappò una risata. A Emanuele no: aveva 6 anni, per lui fu una specie di shock.
Gianpietro non si sofferma sul legame Ema-pesciolino rosso. Va oltre. Anche grazie a un sogno: «Pochi giorni dopo la morte di mio figlio lo vedevo nudo in fondo al mare e mi sembrava di salvarlo riportandolo in superficie: fu un’illuminazione. Capii che, seppure il dolore della perdita di Ema mi avrebbe accompagnato per sempre, sarei riuscito a dare un senso a quello che era successo a lui impegnandomi a fare in modo che non succedesse ad altri ragazzi».
Così crea una «fondazione per Emanuele», chiamandola, appunto, «Pesciolino rosso», che si dedica a tenere i giovanissimi lontani dalla droga. I soci ora sono cinquecento.
Ora, la storia di Ema è anche un’opera teatrale, che, manco a dirlo, sta girando l’Italia.
A cura di Domenico Agasso JR per Vatican Insider
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