Il Martirologio Romano al 17 settembre rievoca: “Sul monte della Verna, in Toscana, la commemorazione dell’Impressione delle sacre Stimmate, che, per meravigliosa grazia di Dio, furono impresse nelle mani, nei piedi e nel costato di san Francesco, Fondatore dell’Ordine dei Minori”.
Poche e sintetiche parole per descrivere un evento straordinario, e mai sino ad allora verificatosi, che si compì sul monte della Verna, mentre un’estate della prima metà del ‘200 volgeva al termine, e che schiere innumerevoli di santi, uomini e donne di Dio, ripeterono nella loro vita.
Anche numerosi artisti si ispirarono a quel primo episodio, immortalandolo in tele ed affreschi. Basti solo ricordare qui, tra i più famosi, quelli di Giotto nella Basilica superiore del Poverello in Assisi.
Poche parole quelle del Martirologio, dunque. Maggiori dettagli li forniscono i primi biografi del Santo. In special modo, S. Bonaventura da Bagnoregio che, nella sua “Legenda Major”, non manca di riferirne con dovizia anche i particolari.
Correva l’anno 1224. S. Francesco d’Assisi, due anni prima di morire, voleva trascorrere nel silenzio e nella solitudine quaranta giorni di digiuno in onore dell’arcangelo S. Michele. Era, del resto, abitudine del Santo d’Assisi ritirarsi, come Gesù, in luoghi solitari e romitori per attendere alla meditazione ed all’unione intima con il Signore nella preghiera. Sapeva, infatti, che ogni apostolato era sterile se non sostenuto da una crescita spirituale della propria vita interiore. Molti luoghi dell’Umbria, della
Toscana e del Lazio vantano di aver ospitato il Poverello d’Assisi in questi suoi frequenti ritiri.
La Verna era uno di questi e certamente era quello che il Santo prediligeva. Già all’epoca di Francesco era un monte selvaggio – un “crudo sasso” come direbbe Dante Alighieri – che s’innalza verso il cielo nella valle del Casentino. La sommità del monte è tagliata per buona parte da una roccia a strapiombo, tanto da farla assomigliare ad una fortezza inaccessibile. La leggenda vuole che la fenditura profonda visibile, con enormi blocchi sospesi, si sia generata a seguito del terremoto che succedette alla morte di Gesù sul Golgota.
Esso era proprietà del conte Orlando da Chiusi di Casentino, il quale, nutrendo una grande venerazione per Francesco, volle donarglielo. Qui i frati del Poverello vi costruirono una piccola capanna.
In quello luogo Francesco era intento a meditare, per divina ispirazione, sulla Passione di Gesù quando avvenne l’evento prodigioso. Pregava così: “O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch’ io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori”.
La sua preghiera non rimase inascoltata. Fu fatto degno, infatti, di ricevere sul proprio corpo i segni visibili della Passione di Cristo. Il prodigio avvenne in maniera così mirabile che i pastori e gli abitanti dei dintorni riferirono ai frati di aver visto per circa un’ora il monte della Verna incendiato di un vivo fulgore, tanto da temere un incendio o che si fosse levato il sole prima del solito.
Scriveva S. Bonaventura da Bagnoregio: “Un mattino, all’appressarsi della festa dell’Esaltazione della santa Croce, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso, con rapidissimo volo, tenendosi librato nell’aria, giunse vicino all’uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l’effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce. Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si stendevano a volare e due velavano tutto il corpo. A quella vista si stupì fortemente, mentre gioia e tristezza gli inondavano il cuore. Provava letizia per l’atteggiamento gentile, con il quale si vedeva guardato da Cristo, sotto la figura del serafino. Ma il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima con la spada dolorosa della compassione. Fissava, pieno di stupore, quella visione così misteriosa, conscio che l’infermità della passione non poteva assolutamente coesistere con la natura spirituale e immortale del serafino. Ma da qui comprese, finalmente, per divina rivelazione, lo scopo per cui la divina provvidenza aveva mostrato al suo sguardo quella visione, cioè quello di fargli conoscere anticipatamente che lui, l’amico di Cristo, stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso, non mediante il martirio della carne, ma mediante l’incendio dello spirito” (Leg. Maj., I, 13, 3).
Fu Gesù stesso, nella sua apparizione, a chiarire a Francesco il senso di tale prodigio: “Sai tu … quello ch’ io t’ho fatto? Io t’ho donato le Stimmate che sono i segnali della mia passione, acciò che tu sia il mio gonfaloniere. E siccome io il dì della morte mia discesi al limbo, e tutte l’anime ch’ io vi trovai ne trassi in virtù di queste mie Istimate; e così a te concedo ch’ ogni anno, il dì della morte tua, tu vadi al purgatorio, e tutte l’anime de’ tuoi tre Ordini, cioè Minori, Suore e Continenti, ed eziandio degli altri i quali saranno istati a te molto divoti, i quali tu vi troverai, tu ne tragga in virtù delle tue Istimate e menile alla gloria di paradiso, acciò che tu sia a me conforme nella morte, come tu se’ nella vita” (“Delle Sacre Sante Istimate di Santo Francesco e delle loro considerazioni”, III considerazione).
Continuava ancora S. Bonaventura che, scomparendo, la visione lasciò nel cuore del Santo “un ardore mirabile e segni altrettanto meravigliosi lasciò impressi nella sua carne. Subito, infatti, nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva osservato nell’immagine dell’uomo crocifisso. Le mani e i piedi, proprio al centro, si vedevano confitte ai chiodi; le capocchie dei chiodi sporgevano nella parte interna delle mani e nella parte superiore dei piedi, mentre le punte sporgevano dalla parte opposta. Le capocchie nelle mani e nei piedi erano rotonde e nere; le punte, invece, erano allungate, piegate all’indietro e come ribattute, ed uscivano dalla carne stessa, sporgendo sul resto della carne. Il fianco destro era come trapassato da una lancia e coperto da una cicatrice rossa, che spesso emanava sacro sangue, imbevendo la tonaca e le mutande” (Leg. Maj., I, 13, 3).
A proposito ancora dei segni della Passione, il primo biografo del Santo, l’abruzzese Tommaso da Celano, nella sua “Vita Prima di S. Francesco d’Assisi”, sosteneva che “era meraviglioso scorgere al centro delle mani e dei piedi (del Poverello d’Assisi), non i fori dei chiodi, ma i chiodi medesimi formati di carne dal color del ferro e il costato imporporato dal sangue. E quelle stimmate di martirio non incutevano timore a nessuno, bensì conferivano decoro e ornamento, come pietruzze nere in un pavimento candido” (II, 113).
Nonostante le ampie descrizioni e resoconti ed il fatto che vi fossero numerosi testimoni oculari delle stigmate, non può tacersi la circostanza che la bolla di canonizzazione di S. Francesco del 19 luglio 1228 “Mira circa nos”, risalente ad appena due anni dopo la morte del Santo, non ne faccia alcun cenno.
Non mancarono in verità, già da parte di alcuni contemporanei, contestazioni ed opposizioni, ritenendo quei segni impressi nelle carni del Patrono d’Italia frutto di una frode.
Lo stesso Gregorio IX, prima di procedere alla canonizzazione di Francesco, pare nutrisse dei dubbi riguardo a quel fatto prodigioso. E’ sempre S. Bonaventura, nel capitolo della sua “Legenda Major” dedicato alla “Potenza miracolosa della Stimmate” del Poverello, a parlarne.
Scriveva che “Papa Gregorio IX, di felice memoria, al quale il Santo aveva profetizzato l’elezione alla cattedra di Pietro, nutriva in cuore, prima di canonizzare l’alfiere della croce (cioè S. Francesco), dei dubbi sulla ferita del costato. Ebbene, una notte, come lo stesso glorioso presule raccontava tra le lacrime, gli apparve in sogno il beato Francesco che, con volto piuttosto severo, lo rimproverò per quelle esitazioni e, alzando bene il braccio destro, scoprì la ferita e gli chiese una fiala, per raccogliere il sangue zampillante che fluiva dal costato. Il sommo Pontefice, in visione, porse la fiala richiesta e la vide riempirsi fino all’orlo di sangue vivo. Da allora egli si infiammò di grandissima devozione e ferventissimo zelo per quel sacro miracolo, al punto da non riuscire a sopportare che qualcuno osasse, nella sua superbia e presunzione, misconoscere la realtà dei quei segni fulgentissimi, senza rimproverarlo duramente” (Leg. Maj., II, 1, 2).
Tale episodio fu magistralmente rievocato da Giotto negli affreschi della Basilica superiore del Santo in Assisi.
La Chiesa, comunque, dopo maturo giudizio, con ben nove bolle pontificie (di Gregorio IX, di Alessandro IV e di Niccolò III), susseguitesi tra il 1237 ed il 1291, difese la realtà delle stigmate di Francesco, senza peraltro esprimere un’interpretazione definitiva del fenomeno, la cui genesi è soprannaturale e deriva dall’Amore.
Non a caso un dottore della Chiesa, S. Francesco di Sales, nel suo “Trattato dell’amor di Dio” del 1616, metteva in relazione le stigmate del Santo d’Assisi con l’amore di compassione verso il Cristo crocifisso, affermando che quest’ultimo trasformò l’anima del Poverello in un “secondo crocifisso”. S. Giovanni della Croce aggiungeva che le stigmate sono la manifestazione, la conseguenza della ferita d’amore e che per renderle visibili occorresse un intervento soprannaturale.
La Chiesa riconobbe la straordinarietà del fenomeno verificatosi nel 1224, inteso quale segno privilegiato concesso da Cristo al suo umile servo di Assisi, anche da un punto di vista liturgico, inserendo la ricorrenza nel calendario. Papa Benedetto XI Boccasini da Treviso, infatti, concesse all’Ordine Francescano ed all’intero Orbe cattolico di celebrarne annualmente il ricordo il 17 settembre.
Di Francesco Patruno