Pax et Justitia

L’incredibile verità su Padre Pio e il dolore delle stimmate che hanno segnato il suo ‘corpo umano’

Padre Pio ridotto ad emblema dell’ltalietta clerico-fascista, Padre Pio definito «piccolo chimico» e «mistico da clinica psichiatrica», sospettato di essersi procurato le stimmate con l’acido. È questo il ritratto del santo del Gargano che emerge da alcune pagine del libro dello storico Sergio Luzzatto, pubblicato nel mese di ottobre 2007 e rilanciato con titoli sensazionalistici dalla stampa.

L’effetto è stato quello di seminare dubbi e sospetti, provocando sconcerto tra i devoti del frate. Con Saverio Gaeta siamo andati a consultare tutti i documenti citati da Luzzatto, e ci siamo accorti di quanto parziale sia la sua ricostruzione, che contiene sviste, omissioni e forzature.

Un acido non fa le stimmate
Si è molto parlato, ad esempio, della testimonianza resa a monsignor Salvatore Bella, vescovo di Foggia, dalla farmacista Maria De Vito e da suo cugino Valentino Vista nel luglio del 1920, a due anni da quel 20 settembre 1918 in cui Padre Pio aveva ricevuto le stimmate mentre stava pregando nel coro del convento.
Un documento conservato nell’Archivio del Sant’Uffizio. Il farmacista Vista denunciò che la cugina
, tornando da San Giovanni Rotondo, «mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell’acido fenico puro, e mi presentò una bottiglietta della capacità di un cento grammi, datale da Padre Pio stesso». Leggiamo la deposizione di Maria De Vito, allegata anch’essa allo stesso faldone del Sant’Uffizio: «Mi consegnò personalmente una boccettina vuota, richiedendomi che gliela facessi pervenire a mezzo dello chaffeur che prestava servizio nell’autocarro passeggeri da Foggia a S. Giovanni, con entro quattro grammi di acido fenico puro, spiegandomi che l’acido fenico serviva per la disinfezione delle siringhe Occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizi di cui era maestro». Nel fascicolo si trova un biglietto autografo di Padre Pio nel quale è scritto fra l’altro: «Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare».

Emergono subito diverse perplessità, a partire dal motivo per cui Padre Pio diede alla De Vito il biglietto. Luzzatto suggerisce che era per il timore di non poter comunicare a tu per tu: ma se le ha consegnato la boccettina è evidente che le ha potuto parlare. E questo è il primo mistero. Il secondo mistero è relativo alla quantità di acido fenico chiesta dal Cappuccino: nel bigliettino di Padre Pio si legge «da duecento a trecento grammi», la dichiarazione giurata della De Vito afferma «quattro grammi», il rapporto del cugino farmacista asserisce che gli è stata presentata «una bottiglietta della capacità di un cento grammi». Non risulta strano che Padre Pio chieda almeno duecento grammi e dia una boccetta che ne contiene appena cento?

Ancora un nuovo mistero: nel bigliettino non c’è alcun riferimento alla segretezza della richiesta, asserita dalla De Vito e dal cugino.
Non è Occorso troppo sforzo per trovare alcune possibili risposte. Innanzitutto, in quei mesi anche a San Giovanni Rotondo si continuava a vivere nel clima di paura per l’epidemia influenzale spagnola, che rendeva necessaria una accurata disinfezione delle siringhe. Si può dunque ragionevolmente ipotizzare che episodicamente sostanze antisettiche come l’acido fenico mancassero nel paese e fosse perciò necessario dirigersi verso il capoluogo. È opportuno aggiungere che mai, in ogni caso, l’acido fenico avrebbe potuto causare e mantenere le profonde lesioni del frate, che i medici Luigi Romanelli e Giorgio Festa avevano potuto osservare accuratamente, riscontrandone la profondità. A riprova, leggiamo qualche autorevole testo dei nostri giorni: il vademecum Martindale attesta che «severo o fatale avvelenamento può verificarsi per l’assorbimento di fenolo attraverso la pelle o le ferite [e] soluzioni contenenti fenolo non devono essere applicate su vaste aree della pelle o ampie ferite poiché può essere assorbito sufficiente fenolo da dare luogo a sintomi tossici». Nessun dubbio: l’uso continuato dell’acido fenico sulla pelle, anche soltanto per qualche mese, avrebbe causato danni irreparabili ed evidentissimi (figuriamoci per un cinquantennio!).

Uno scherzo innocente
La seconda presunta “bomba” tirata fuori da Luzzatto nel suo libro su Padre Pio riguarda la veratrina. Nel rapporto del farmacista Valentino Vista si legge: «Dopo poco tempo dalla richiesta dell’acido fenico venne una seconda richiesta. […] Appena la lessi mi venne il sospetto che i 4 gr. di veratrina richiesti da P. Pio servissero al medesimo per procurarsi o rendere più appariscenti le stigmate alle mani».
Nel giugno 1921, davanti al vescovo Raffaello Carlo Rossi, visitatore apostolico inviato dal Vaticano, dopo aver giurato sul Vangelo, Padre Pio spiega quella richiesta: «Sì, lo ricordo benissimo. La richiesi, senza conoscerne neppur l’effetto, perché il P. Ignazio Segretario del Convento una volta mi dette una piccola quantità di detta polvere per metterla nel tabacco e allora io la ricercai più che altro per una ricreazione, per offrire ai Confratelli tabacco che con piccola dose di questa polvere diviene tale da eccitare subito a starnutire».

Luzzatto ha sostenuto «la scarsa verosimiglianza di giustificazioni come queste».

Dai testi medici emerge chiaramente che Padre Pio aveva ragione: la veratrina ha effetti starnutatori. Luzzatto deve aver “annusato” la verità, ma si è ben guardato da citare nel suo libro – e questa è un’omissione grave – un’altra testimonianza che conferma proprio le parole del futuro santo. Si tratta della testimonianza sotto giuramento di padre Ignazio da Jelsi, sempre dinanzi al vescovo Rossi, visitatore apostolico: «La veratrina ce l’ho. In un altro Convento avevamo una farmacia per la Comunità, numerosissima. Un farmacista me ne dette un grammo e ne conservo. Una sera scherzando coi confratelli feci provare che effetto produce avvicinandola al naso. Ne prese anche P. Pio e bisognò che andasse in cella perché non cessava dallo starnutire». Questa dichiarazione è importantissima: attesta che davvero la veratrina venne usata per uno scherzo e soprattutto conferma le parole che Padre Pio, dopo aver giurato sul Vangelo, disse al visitatore apostolico Rossi. Perché Luzzatto ha omesso questa testimonianza? Forse perché citandola si sarebbe smontato il «sospetto» di un Padre Pio impostore, o «piccolo chimico», che gioca con gli acidi per procurarsi i segni della passione di Cristo?

Il fascismo non c’entra
Il libro dello storico su Padre Pio è attraversato da un unico «filo rosso», da un’unica chiave interpretativa della figura del frate stimmatizzato: quella della sua (presunta) contiguità con il fascismo, al punto da farne un’icona del «clericofascismo». Che sia proprio questa la lente attraverso cui egli legge la biografia del futuro santo lo indicano i titoli di due capitoli del suo volume: «Arditi di Cristo?» e «Stigmate littorie».

Il primo dei due si apre con la descrizione del cosiddetto «eccidio di San Giovanni Rotondo», avvenuto il 14 ottobre 1920. Un evento che nel libro in questione viene artatamente associato a Padre Pio, il quale ben due mesi prima – vale a dire il 15 agosto – aveva semplicemente benedetto i labari delle associazioni di ex combattenti e mutilati, tra l’altro per obbedienza ad una indicazione dei Superiori francescani. Ecco i fatti. Quella mattina del 14 ottobre un corteo socialista, formato da circa seicento persone, attraversò le strade di San Giovanni Rotondo per accompagnare in Municipio i nuovi consiglieri comunali, i quali si ripromettevano di esporre sul balcone del palazzo la bandiera rossa al posto del tricolore italiano. Si era in quello che sarà definito il «biennio rosso»: i socialisti, usciti vincitori seppur di misura dal responso delle urne, spingevano per una resa dei conti sospinti dall’ala massimalista del partito. Per i loro oppositori politici – un centinaio di aderenti al fascio, riunitisi sul lato opposto di piazza dei Martiri – tale gesto risultava una provocazione antipatriottica, alla quale si erano ripromessi di reagire anche usando la forza. Carabinieri ed esercito erano stati messi sull’avviso nei giorni precedenti e avevano allestito un nutrito servizio d’ordine: alla decina di carabinieri della locale caserma se ne erano aggiunti di rinforzo un’altra quarantina, insieme con una compagnia di un’ottantina di fanti comandata da due tenenti. Ma le provocazioni fra i due schieramenti ideologici innescarono una spirale di violenza e la situazione evolse rapidamente in una mortale sparatoria, il cui bilancio è per lo storico di «undici caduti “rossi” su undici» . Scrive proprio così, nero su bianco.




Tutti i morti, a suo dire, furono «rossi».
Ciò che invece davvero accadde è riportato nella documentata e imparziale relazione dell’ispettore Vincenzo Trani, lodata da Luzzatto, che la utilizza ma ne dimentica una pagina fondamentale, quella dove si legge che in quella occasione «un carabiniere cadde mortalmente ferito, ed a tanta impreveduta aggressione rispose il fuoco che fu aperto dai carabinieri. […] Il carabiniere Imbriani di fatti cadde vittima di un colpo sparatogli contro da un borghese che si era impadronito di uno dei fucili tolti dalle mani dei soldati». Non vogliamo credere che la morte del carabiniere (il motivo scatenante della sparatoria e dell’eccidio) sia stata volutamente taciuta da Luzzatto, preferiamo pensare si sia trattato di una gravissima svista. Certo, fa riflettere e meditare la pagina 110 del suo libro, dove campeggia la fotografia della lapide in memoria dell’eccidio, da lui stesso scattata: basta osservarla, per notare che a fianco del sesto nome nella lista, quello di Imbriani Vito, è esplicitamente annotato «carabiniere». Lo si può leggere a occhio nudo sulla foto da lui pubblicata, ma, nei testi di quelle pagine, il povero Imbriani scompare, è un fantasma, un morto che non esiste, nonostante la sua memoria sia stata incisa sulla pietra e sia tuttora appesa nella pubblica piazza. L’uccisione del carabiniere, lo ripetiamo, aveva provocato la dura reazione dei commilitoni e dei fanti.
Non può essere certo considerata un incidente collaterale, da omettere. È un elemento fondamentale per comprendere quel doloroso episodio.



di Andrea Tornielli, vaticanista (archivio web)

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