Non ha mai corteggiato le mode, è andato spesso controcorrente. Lo ha fatto anche quando si è trattato di sfidare la mitologia imperante della contestazione studentesca e il mito pseudo-salvifico della violenza purificatrice. È stato un poeta in musica, questo è sicuro. Ha avuto il grande merito di avvicinare i giovani alla poesia e di far loro capire che la letteratura non è estranea alla vita, ma anzi, sa tradurre ciò che ci sembra inesprimibile in parole umane. Il perdono ai suoi rapitori è stata la prova reale che la ricerca di Dio del Faber non si fermava alla parole. Anche se le sue parole e le sue note hanno tracciato un capitolo della letteratura e della musica d’oggi
Questo era il Dio di Fabrizio De Andrè. A vent’anni dalla sua scomparsa, ci rimane soprattutto la sua ricerca di un Altro che non fosse quello dei codici o della teologia, ma un Dio d’amore che sa stare vicino alla sofferenza solitaria degli ultimi o degli emarginati. Quella canzone fu scritta di getto subito dopo la notizia del suicidio di Luigi Tenco durante il festival di Sanremo. Il Dio di Faber (soprannome datogli dal suo grande amico Paolo Villaggio) era assai vicino ai personaggi preferiti dal cantautore genovese, i poveracci che vivono di espedienti, le prostitute, i ladri, i senza dimora, i rifiutati da una società sempre più anonima e insensibile.
Ma De Andrè è stato anche uno dei pochi che hanno sdoganato la canzone portandola a stare alla pari con la letteratura. Questo non solo quando il Faber si è confrontato con Edgar Lee Masters e la sua celebre Antologia di Spoon River, messa in musica nel disco del 1971, “Non al denaro, non all’amore né al cielo” o quando ha tradotto grandi poeti-cantautori come Brel, Brassens, Dylan, Cohen, ma quando ha creato autentiche poesie in musica, come “Il testamento di Tito” (parte di un disco, “La buona novella” ispirato ai vangeli apocrifi), “Sally”, “Verranno a chiederti del nostro amore”, per citarne solo alcune.
De Andrè non ha solo creato il nuovo, ma ha ricordato a chi separava spocchiosamente la canzone dalla poesia che alle origini musica e testo erano una cosa sola, e che la grande poesia provenzale, modello per tutta la poesia d’amore che sarebbe venuta dopo, era accompagnata dal canto: nella stessa Divina Commedia troviamo traccia di questo, quando il musico Casella, nel Purgatorio, intona una poesia di Dante, “Amor che ne la mente mi ragiona”, commuovendo gli animi e sospendendo per un attimo il corso della penitenza salvifica.
Non ha mai corteggiato le mode. Lui è andato spesso controcorrente, anche quando si è trattato di sfidare la mitologia imperante della contestazione studentesca e il mito pseudo-salvifico della violenza purificatrice.
Fonte www.agensir.it
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