(Tratto da: “Joseph Ratzinger, La mia Vita – Autobiografia”, San Paolo, 1997). Dopo i primi studi in seminario, all’età di 16 anni il giovane Joseph venne assegnato al programma Luftwaffenhelfer (“personale di supporto alla Luftwaffe”) a Monaco e fu assegnato in un reparto di artiglieria contraerea esterno alla Wehrmacht che difendeva gli stabilimenti della BMW.
Fu assegnato per un anno ad un reparto di intercettazioni radiofoniche. Con il peggioramento delle sorti tedesche nel conflitto fu trasferito e incaricato allo scavo di trincee, quindi inviato insieme a gruppi di coetanei a compiere marce in alcune città tedesche cantando canti nazionalsocialisti per sollevare il morale della popolazione. Come egli stesso ricorda, nell’aprile del 1944 durante una di queste marce disertò, e riuscì ad evitare la fucilazione, prevista per i disertori, grazie ad un sergente che lo fece scappare. (2) Con la disfatta tedesca, nell’aprile del 1945 Ratzinger fu recluso per alcune settimane in un campo degli Alleati, vicino a Ulma, come prigioniero di guerra; venne rilasciato il 19 giugno 1945. Durante tutto questo periodo non ebbe mai necessità di sparare un colpo e, infatti, non si trovò mai a partecipare a scontri armati.
Vista la crescente mancanza di personale militare, nel 1943 gli uomini del regime inventarono qualcosa di nuovo. Dato che gli studenti degli internati dovevano comunque vivere in comunità, lontano da casa, ritennero che non ci fosse nessun ostacolo a spostare la sede dei loro collegi, collocandola nei pressi delle batterie antiaeree. Inoltre, dal momento che non potevano certo studiare tutto il giorno, apparve del tutto normale che essi utilizzassero il loro tempo libero per dei servizi di difesa dagli attacchi aerei nemici. Di fatto, io non ero più in internato da molto tempo, ma dal punto di vista giuridico facevo ancora parte del seminario di Traunstein. Fu così che il piccolo gruppo di seminaristi della mia classe – classi 1926 e 1927 – fu chiamato nei servizi di contraerea a Monaco. A sedici anni dovetti accettare un tipo molto particolare di “internato”. Abitavamo in baracche come i soldati regolari, che erano ovviamente una piccola minoranza, ci vennero messe addosso le stesse uniformi e, nella sostanza, dovevamo svolgere il loro stesso servizio, con la sola differenza che a noi era concesso anche di frequentare un minimo di lezioni, impartiteci dagli insegnanti del rinomato Maximilian Gymnasium di Monaco. Fu un’esperienza interessante da molti punti di vista. Formavamo ora un’unica classe con gli studenti di questo ginnasio, a loro volta chiamati a prestare servizio nella contraerea, e per noi fu l’incontro con un nuovo mondo. Noi, provenienti da Traunstein, eravamo migliori in latino e in greco, ma ci accorgevamo di essere vissuti in provincia e che la metropoli, con le sue svariate offerte culturali, aveva aperto ai nostri nuovi compagni altri orizzonti. All’inizio ci fu qualche attrito, ma poi riuscimmo a diventare un gruppo davvero unito. La prima postazione a cui fummo assegnati fu Ludwigsfeld, a nord di Monaco, dove eravamo incaricati di proteggere una succursale della BMW, in cui venivano fabbricati dei motori per aerei. Seguirono Unterfòhring, a nordest di Monaco e, per breve tempo, Innsbruck, dove la stazione era stata distrutta e sembrava necessario rafforzare le difese. Dal momento che lì gli attacchi non si ripeterono, fummo infine trasferiti a Gilching, a nord di Ammersee, con un doppio incarico: dovevamo difendere gli impianti della Dornier, da cui si levavano in volo i primi aerei a reazione, e, molto genericamente, dovevamo impedire le operazioni degli aerei alleati, che si raccoglievano su questa zona prima di attaccare Monaco.
Il 10 settembre 1944, giunti nel frattempo all’età del servizio militare, venimmo congedati dalla contraerea, presso la quale avevamo prestato servizio come studenti.. Quando tornai a casa, sul tavolo c’era già la chiamata al servizio lavorativo del Reich. Il 20 settembre un viaggio interminabile mi portò fin nel Burgenland, dove – con molti amici del ginnasio di Traunstein – fui assegnato a un campo situato nell’angolo di territorio in cui l’Austria confina con l’Ungheria e la Cecoslovacchia.. Quelle settimane di servizio lavorativo sono rimaste nella mia memoria come un ricordo opprimente. I nostri superiori erano in gran parte provenienti dalla cosiddetta Legione Austriaca. Si trattava quindi di nazisti della prima ora, che erano stati incarcerati sotto il cancelliere Dollfulß, persone fanaticamente ideologizzate, che ci tiranneggiavano con violenza. Una notte fummo tirati giù dal letto e radunati, ancora mezzo addormentati, in tuta da esercitazione. Un ufficiale delle SS ci chiamò uno per uno fuori dalla fila e cercò di indurci all’arruolamento “volontario” nel corpo delle SS, sfruttando la nostra stanchezza e la posizione di ciascuno davanti a tutto il gruppo radunato. Molti com-militoni, che pure erano delle brave persone, furono arruolati in questo modo in questo corpo criminale. Insieme con alcuni altri io ebbi la fortuna di poter dire che avevo intenzione di diventare sacerdote cattolico. Venimmo coperti di scherni e di insulti e ricacciati indietro, ma queste umiliazioni ci erano molto gradite, dal momento che ci liberavamo dalla minaccia di questo arruolamento falsamente “volontario” e da tutte le sue conseguenze.
Finalmente anche nel nostro paese arrivarono gli americani. Pur essendo la nostra casa priva di ogni comodità, essi la scelsero come loro quartier generale. Venni identificato come soldato, dovetti indossare nuovamente l’uniforme che avevo già messo da parte, alzare le mani e prendere posto tra i prigionieri di guerra che, sempre più numerosi, vennero acquartierati proprio sul nostro prato. Soprattutto mia madre soffrì profondamente nel vedere suo figlio e quei resti dell’esercito sconfitto starsene là, senza alcuna certezza, guardati a vista da soldati americani armati fino ai denti. Speravamo di essere presto liberati, ma mio padre e mia madre riuscirono a farmi avere tante piccole cose utili per le giornate che ancora mi stavano davanti, mentre io stesso mi infilai in tasca un grosso quaderno e una matita – una scelta apparentemente poco pratica, mentre, in realtà, quel quaderno si rivelò per me una meravigliosa compagnia, poiché, giorno dopo giorno, vi potei segnare pensieri e riflessioni di ogni genere; arrivai per sino a cimentarmi con la composizione di esametri greci. Marciammo per tre giorni sull’autostrada vuota fino a Bad Aibling, in una fila che si andava via via ingrossando fino a divenire interminabile. I soldati americani fotografavano soprattutto noi, i giovanissimi, e gli anziani, per portarsi a casa il ricordo dell’esercito sconfitto e della desolata condizione di chi ne faceva parte. Poi rimanemmo un paio di giorni all’aperto sul campo dell’aeroporto militare di Bad Aibling, finché fummo trasportati su un esteso terreno agricolo, dove erano stati acquartierati circa 50.000 prigionieri. Anche gli americani apparivano in difficoltà nel gestire cifre di questo genere. Restammo all’aperto fino alla fine della nostra prigionia. Il vitto consisteva in un mestolo di minestra e un pezzo di pane al giorno. Alcuni fortunati avevano portato con sé una tenda. Quando, dopo un lungo periodo di bel tempo, cominciò a piovere, si formarono dei gruppi, per cercare un misero riparo dall’offesa del maltempo.
Davanti a noi, a segnare il limite dell’orizzonte, la sagoma maestosa del duomo di Ulm, la cui vista giorno dopo giorno diventava per me un consolante annuncio della perenne umanità della fede. Ma anche nello stesso campo di concentramento fiorivano sempre di più delle iniziative caritatevoli. C’erano là alcuni sacerdoti, che ogni giorno celebravano all’aperto la Santa Messa, per la quale si raccoglieva un gruppo di partecipanti non particolarmente grande, ma riconoscente. Si radunavano studenti di teologia degli ultimi semestri, ma anche laureati e universitari di varia origine – giuristi, storici dell’arte, filosofi – così che poté svilupparsi un ricco programma di conferenze, che dava una certa articolazione alle nostre vuote giornate, arricchiva le conoscenze e, a poco a poco, faceva nascere delle amicizie al di là dei blocchi del campo di concentramento. Vivevamo senza orologi, senza calendario, senza giornali; solo tramite delle voci spesso confuse e frammentarie arrivava all’interno del nostro mondo recintato dal filo spinato qualcosa di quel che accadeva fuori. Solo all’inizio di giugno, se ben mi ricordo, cominciarono a rilasciarci e ogni vuoto nelle nostre fila era per noi un segno di speranza. Si procedeva per classi sociali: i primi furono gli agricoltori, gli ultimi – perché considerati i meno utili in quelle circostanze – gli studenti.. In quella situazione, come si può ben capire, molti laureati si dichiaravano contadini, e molti si ricordavano di qualche lontano parente o conoscente che risiedeva in Baviera, per essere rilasciati proprio in questa regione, dato che la zona di occupazione americana era considerata la più sicura e la più ricca di prospettive. Alla fine arrivò anche il mio turno.
Il 19 giugno dovetti passare i diversi controlli e gli esami di rito, finché, ebbro di gioia, mi trovai tra le mani il foglio di congedo, con cui la fine della guerra diventava realtà anche per me. Dei camion americani ci trasportarono fino al confine settentrionale di Monaco; da qui ciascuno doveva trovare il modo di arrivare fino a casa propria. Mi unii a un giovane di Trostberg, originario quindi delle parti di Traunstein, per proseguire il cammino con lui. Speravamo di percorrere in tre giorni i 120 chilometri che ci separavano da casa. Per strada pensavamo di poter pernottare presso dei contadini e di ricevere da loro qualcosa da mangiare. Avevamo appena superato Ottobrunn, quando ci superò un camion del latte che andava a gas. Eravamo ambedue troppo timidi per fermarlo, ma il conducente si fermò lui stesso e chiese dove dovevamo andare. Quando gli dicemmo che la nostra meta era Traunstein, si mise a ridere, dato che lavorava per una latteria di Traunstein e stava tornando a casa. Fu così che, inaspettatamente, arrivai nella mia città ancor prima del tramonto del sole; la
Gerusalemme celeste in quel momento non mi sarebbe potuta apparire più bella. Dalla chiesa udivo pregare e cantare, era la sera del venerdì del Sacro Cuore. Non volli disturbare e, quindi, non entrai, ma mi affrettai verso casa quanto più velocemente potevo. Quando all’improvviso mi vide vivo, davanti a lui, mio padre non stava più in sé dalla gioia. Mia madre e mia sorella erano in chiesa. Mentre tornavano a casa, delle ragazze dissero loro che mi avevano visto passare di corsa. Nella mia vita non ho più mangiato un pasto tanto gustoso come quello che mia madre mi preparò quella volta con i prodotti del nostro orticello.
Redazione Papaboys (Fonte ilsismografo.blogspot.it)