Numeri alla mano, quella che emerge è la convinzione che il picco negativo della crisi sia alle spalle: lo pensa il 47% degli italiani, il 12% in più rispetto all’anno scorso. Ma ora è l’incertezza a prevalere. Di conseguenza, la gestione dei soldi da parte delle famiglie è fatta di breve e brevissimo periodo. Tra il 2007 e il 2013 tutte le voci delle attività finanziarie delle famiglie sono diminuite, tranne i contanti e i depositi bancari, aumentati in termini reali del 4,9%, arrivando a costituire il 30,9% del totale (erano il 27,3% nel 2007). A giugno 2014 questa massa finanziaria liquida è cresciuta ancora, fino a 1.219 miliardi di euro.
Prevale, spiega il Censis, un cash di tutela, con il 45% delle famiglie che destina il proprio risparmio alla copertura da possibili imprevisti, come la perdita del lavoro o la malattia, e il 36% che lo finalizza alla voglia di sentirsi con le spalle coperte. La percezione di vulnerabilità porta il 60% degli italiani a ritenere che a chiunque possa capitare di finire in povertà, come fosse un virus che può contagiare chiunque. La gestione del contante è una strategia di risposta adattativa di fronte all’incertezza. Pensando al futuro, il 29% degli italiani prova ansia perché non ha una rete di protezione, il 29% è inquieto perché ha un retroterra fragile, il 24% dice di non avere le idee chiare perché tutto è molto incerto, e solo poco più del 17% dichiara di sentirsi abbastanza sicuro e con le spalle coperte.
Tra i giovani, tra 18 e i 34 anni, sale al 43% la quota di chi si sente inquieto e con un retroterra fragile, e scende ad appena il 12% la quota di chi si sente al sicuro. E il cash è anche carburante dell’informale, del nero, del sommerso, per creare reddito non tassato e abbattere i costi. L’attendismo cinico degli italiani si alimenta anche della convinzione che in fondo ci sono alcune invarianti nei processi sociali che con la crisi finiscono per patologizzarsi.
L’Italia ha un capitale umano non utilizzato di 8 milioni di individui. Lo sottolinea il capitolo su “La società italiana al 2014” del 48esimo Rapporto Censis, in cui si punta il dito sull’incapacità di ottimizzare i nostri talenti. “Siamo un Paese dal capitale inagito anche perché non riusciamo ancora a ottimizzare i nostri talenti – spiega il Censis -. Agli oltre 3 milioni di disoccupati si sommano quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati. E ci sono 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. È un capitale umano non utilizzato di quasi 8 milioni di individui. Più penalizzati sono i giovani. I 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali. E i Neet, cioè i 15-29enni che non sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione, non hanno un impiego né lo cercano, sono in continua crescita: da 1.832.000 nel 2007 a 2.435.000 nel 2013”.
Tra i fattori più importanti per riuscire nella vita, il 51% richiama una buona istruzione e il 43% il lavoro duro, ma per entrambe le variabili la percentuale italiana è inferiore alla media europea, pari rispettivamente al 63% per l’istruzione (82% in Germania) e al 46% per il lavoro sodo (74% nel Regno Unito). In Italia risultano molto più alte le percentuali di chi è convinto che servono le conoscenze giuste (il 29% contro il 19% inglese) e il fatto di provenire da una famiglia benestante (il 20% contro il 5% francese). Il riferimento all’intelligenza come fattore determinante per l’ascesa sociale raccoglie il 7% delle risposte in Italia: il valore più basso in tutta l’Unione europea.
Italia Paese “delle sette giare”: come ogni anno, il Censis conia una definizione d’effetto per la situazione sociale. Quest’anno si parla di “profonda crisi della cultura sistemica”: siamo una “società liquida che rende liquefatto il sistema”. Interessi e comportamenti individuali e collettivi si aggregano in mondi chiusi in se stessi. Sono le giare, contenitori con una ricca potenza interna ma che non dialogano tra loro: poteri sovranazionali, politica nazionale, istituzioni, minoranze vitali, gente, sommerso e media.
Si fanno sempre meno figli. Tra le cause della denatalità pesano la crisi economica e la mancanza di un lavoro fisso. È quanto emerge dal Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese. Interrogati sulle possibili cause della scarsa propensione degli italiani ad avere figli, gli intervistati della recente ricerca del Censis sulla fertilità hanno sottolineato nella grande maggioranza (85,3%) il peso della cause economiche, e in misura più marcata al Sud (91,5%). Se l’83,3% degli italiani è convinto che la crisi economica abbia un impatto sulla propensione alla procreazione rendendo la scelta di avere un figlio più difficile da prendere anche per chi lo vorrebbe, questa quota raggiunge il 90,6% proprio tra i giovani fino a 34 anni, che sono contemporaneamente coloro che più subiscono l’impatto della crisi e nello stesso tempo dovrebbero essere i protagonisti delle scelte di procreazione.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Avvenire
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