50 anni, il 25 luglio 1968, veniva pubblicata l’Enciclica “Humanae Vitae” di Paolo VI sulla dottrina della Chiesa sul matrimonio, l’apertura alla vita, la paternità e la maternità responsabile. Sull’attualità di questo documento, riproponiamo dall’archivio di Papaboys 3.0 l’intervista di Monia Parente a mons. Paolo Martinelli, vescovo ausiliare di Milano:
R. – Si tratta ancora oggi di un testo di straordinaria attualità proprio per la situazione di crisi antropologica in cui spesso la persona umana si trova e in rapporto al tema degli affetti, del matrimonio e della famiglia. Penso soprattutto a quanto sta accadendo in Occidente e in generale a quanto la Chiesa sta considerando intorno alla famiglia, proprio in riferimento al Sinodo dei vescovi. C’è una premessa fondamentale, mi sembra, da fare su questo: cioè che di fatto il Beato Paolo VI, ancora da giovane sacerdote e anche poi da arcivescovo di Milano, aveva capito anche prima di tanti altri quello che stava realmente succedendo alla fede nel nostro tempo e soprattutto il rapporto tra fede e cultura contemporanea che stava venendo meno. Diceva ancora in età giovanile: “Cristo ormai per la nostra cultura è diventato sconosciuto”. E ancora, sentiva la necessità di riproporre il nesso profondo tra Cristo e l’esperienza umana.
D. – E anche Papa Francesco ha parlato dell’attualità dell’Humanae Vitae…
R. – Direi molto importante anche il fatto che lo stesso Papa Francesco nel viaggio nelle Filippine ebbe modo di dire, a coloro che gli ponevano delle domande, dei giornalisti, circa grande attualità profetica di questo testo, soprattutto perché andava contro una sorta di impostazione ideologica di neomalthusianesimo che voleva essere un controllo di fatto sulle nascite e sullo sviluppo della realtà umana. In questo senso invece, Papa Paolo VI ha riportato profondamente il tema nell’ambito antropologico, nell’ambito della libertà e della responsabilità che le persone devono avere nei confronti della propria vita e della vita degli altri.
D. – Quale a suo avviso il punto più attuale dell’Enciclica?
R. – Mi sembra che il punto più attuale di questa Enciclica sia proprio l’implicazione antropologica del discorso riguardo all’unità che c’è nella vita matrimoniale tra l’amore reciproco degli sposi e l’apertura alla vita. Infatti l’accusa fondamentale che era sottesa in questo documento era proprio questa disarticolazione tra amore unitivo e la procreazione che, di fatto, oggi vediamo essere un punto di estrema espansione dal punto di vista culturale. Pensiamo a questo sviluppo fino alla sua esasperazione, fino ad arrivare oggi ad esempio in questa disarticolazione a pratiche come quelle dell’utero in affitto, che non sono che un’strema conseguenza della disarticolazione tra l’amore unitivo e il compito procreativo. Questo permette purtroppo di arrivare a una “cosificazione” del corpo, soprattutto del corpo della donna e dall’altra parte c’è il rischio di ridurre il figlio ad un prodotto meccanico invece di essere il frutto di un amore generativo. E mi sembra che Paolo VI proprio nel difendere il principio fondamentale, ossia che l’amore coniugale ha in se stesso in modo inscindibile l’amore unitivo, l’affermazione dell’unità con l’altro, e nello stesso tempo l’amore generativo, era proprio per evitare questa disarticolazione che poi avrebbe portato a quello che di fatto stiamo sperimentando. E mi sembra anche molto importante il principio che lui ha affermato in questo documento riguardante la paternità e la maternità responsabile che essenzialmente era tutta tesa a sottolineare la responsabilità e quindi la libertà della persona all’interno del rapporto amoroso.
D. – Cosa si vuole sottolineare con queste argomentazioni?
R. – Qui mi sembra che il tema del poter ricorrere ai periodi infecondi come anche il tema della castità siano proprio dimensioni che vengono messe a tema per sottolineare il soggetto umano, l’uomo e la donna, come soggetti di responsabilità e da questo punto di vista mi sembra veramente profetico il richiamo che Paolo VI ha fatto alla dimensione casta dell’amore coniugale. In questo senso la castità è proprio una figura umanizzante perché dice che la persona nella relazione amorosa non deve essere determinata semplicemente dall’impeto istintivo o dalla pulsione ma che deve entrare la responsabilità, la libertà, la volontà. Quindi in questo senso la castità è un’espressione della temperanza degli affetti dentro il rapporto coniugale. Questo permette che la persona rimanga pienamente soggetto di libertà. In questo senso la dimensione della castità negli affetti aiuta a tenere l’io in rapporto con tutta la realtà in modo adeguato, a dare un ordine agli affetti, a trattarsi sempre come persona e mai a ridurre l’altro a un proprio tornaconto. E questo mi sembra ancora un aspetto molto profetico che vale la pena ribadire e sottolineare.
D. – L’Humanae Vitae è stato comunque un documento che ha trovato delle difficoltà nell’accoglienza …
R. – Paolo VI era ben consapevole delle difficoltà che questi aspetti del magistero della Chiesa avrebbero incontrato su questo punto. Nello stesso documento lui in un certo senso dice anche che si aspetta una grossa difficoltà. Qui emerge proprio la libertà e la responsabilità di questo Pontefice nel voler ribadire questi principi della dottrina nelle loro grandi implicazioni antropologiche con una responsabilità che la Chiesa deve avere nei confronti dell’umanità. Una responsabilità che si fa promotrice, più che mai oggi, di un nuovo umanesimo che mette al centro le persone nelle loro relazioni costitutive. Tra queste relazioni costitutive certamente c’è quello dell’uomo e della donna nel matrimonio perché vivano un amore profondamente autentico e generativo di nuova vita.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana