«L’amore del denaro è la radice di tutti i mali». Così scrive San Paolo Apostolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,10) ed è la migliore introduzione per riflettere sull’argomento dell’avarizia che, dalla dottrina cattolica, è stata definita come la cupidigia disordinata dei beni materiali. Questi beni infatti sono utili soltanto nella misura in cui giovano all’uomo per il raggiungimento del suo fine ultimo.
Spiega San Tommaso d’Aquino: «Dunque la bontà dell’uomo nei loro riguardi consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle ricchezze in quanto necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Quindi nell’eccedere codesta misura si ha un peccato: quando si vuole acquistare o ritenere più del dovuto. E questo costituisce precisamente l’avarizia, che è un amore immoderato di possesso».
Come negli altri vizi capitali, anche nell’avarizia c’è una triplice offesa: al prossimo, a se stessi e a Dio. è contro il prossimo poiché nelle ricchezze materiali uno non può sovrabbondare senza che un altro rimanga nell’indigenza, perché i beni materiali non possono essere posseduti simultaneamente da più persone; è contro se stessi perché comporta una mancanza di moderazione negli affetti che uno prova per le ricchezze, cioè amore, compiacenze o desideri esagerati verso di esse, creando un disordine nella propria anima; è contro Dio perché per i beni materiali si disprezzano i beni eterni.
San Gregorio Magno osserva che l’avarizia si consuma, piuttosto che nel piacere o sensazione della carne, come la gola e la lussuria, nel piacere o percezione dell’anima e la pone tra i vizi capitali, da cui nascono altri peccati ed elenca le sette figlie dell’avarizia: la «obduratio contra misericordiam» (la durezza del cuore che impedisce di dare ai bisognosi), la «inquietudo mentis» ( la troppa ansia nel ricercare le ricchezze) la «violentia» (violenza), la «fallacia» (l’inganno), il «periurium» (lo spergiuro), la «fraus» (la frode), la «proditio» (il tradimento) cioè i mezzi illeciti per impossessarsi delle ricchezze.
Quanto si è ricordato non riguarda soltanto la storia dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ma vale pure per noi cristiani dell’inizio del Terzo Millennio, che viviamo in una società «sazia e disperata» che rischia di procedere verso una pericolosa deriva materialista. L’avaro, pertanto, non è il patetico protagonista della celebre commedia di Molière o qualche altro personaggio tirchio e spilorcio che la letteratura ed il cinema hanno illustrato e che dunque ci è estraneo per la sua goffaggine e ridicolezza, ma potrebbe, invece, essere anche dentro di noi.
La tentazione sottile e velenosa dell’avarizia è sempre in agguato, il richiamo di San Paolo è, soprattutto, per i nostri giorni dove le scorribande finanziarie, frutto perverso di una certa globalizzazione, sono tese al grande ed ingiusto accumulo di denaro, per l’opera di avventurieri senza etica, ma nel disinteresse o con l’ignoranza di risparmiatori desiderosi solo di ammucchiar soldi.
L’avarizia è vecchia quanto il mondo, già il poeta latino Virgilio diceva indignato: «Ahi de l’oro empia ed esecrabil fame!» («auri sacra fames»), perciò siamo in pericolo di invecchiare nei nostri peccati. Il tempo di Quaresima è anche un periodo di profonda revisione di vita e di attenta vigilanza dei comportamenti; non disperdiamo questa occasione per riflettere e meditare sul retto uso dei beni materiali.
di Mons. Andrea Drigani