Nel momento in cui scrivo, Steve Stephens è un 37enne che a Cleveland sta uccidendo delle persone innocenti e posta l’assassinio su Facebook. Il movente sarebbe la fine della storia d’amore con Joy Lane. Questo il nome che ha fatto ripetere a Robert Godwin, un 74enne padre di nove figli e nonno di 14 nipoti, prima di sparargli: “dillo bene perché è la ragione per cui muori”, si sentiva nel video che tre ore dopo il social ha ritirato. La polizia diffonde foto dell’assassino e invita la gente ad evitarlo visto che è a piede libero e che uccide a caso persone innocenti. Stephens infatti starebbe commettendo questi truci assassini “per amore” della sua ex fidanzata e afferma che continuerà a farlo fino a quando la ragazza, o la madre di lei, non gli diranno “basta”. Come se commettere un omicidio in diretta, dire di averne fatta un’altra dozzina, fosse l’attestato di una virile eroicità che soddisfatta – come quando si giunge al culmine del piacere – deve essere interrotta perché compiuta.
Se il nostro tempo è contrassegnato dalla mancanza d’amore – e di segnali ce ne sono a iosa – il narcisismo è la malattia del nostro tempo. Infatti, secondo i classici, il modo migliore per dire “ti amo” è l’espressione “per me è importante che tu esisti”: e quindi se nella mia vita reale non trovo nessuno che me lo dica, cerco a tutti i costi sui social il modo di ricevere visibilità. Narciso, non dimentichiamolo, era colui che per trovare se stesso aveva bisogno di guardarsi costantemente in un immagine che gli veicolasse quel “per me è importante che tu esisti” che nessun amore gli riusciva a dare.
Da che mondo è mondo, dopo un omicidio ci si nasconde, si occulta il cadavere, non lo si posta su Facebook. A meno che io abbia un così disperato bisogno di visibilità a volere che tutto il mondo sappia chi sono io anche se il prezzo da pagare è che tutto il mondo verrà a sapere che sono un assassino.
Questo narcisismo tanto drammatico quanto pericoloso non deve farci riflettere sull’uso distorto dei social ma sulla natura e sulla profondità delle nostre relazioni: a partire di quella della madre di Steve che continua a ripetere che il suo è un bravissimo ragazzo, gentile con tutti, che semplicemente ha perso la testa per la sua ragazza.
Cosa ci dice una vita che ha bisogno, per esistere, di una sovraesposizione mediatica tanto ossessiva quanto inversamente proporzionale al bene contenuto e quindi alla durata e alla profondità della medesima?
Dai resoconti emerge poi un secondo elemento, altrettanto preoccupante per quanto vicino a noi: Steve aveva perso tutti i suoi soldi al gioco. Quindi voglia di amore, cioè voglia di essere importante per qualcuno, anzi “per moltissimi” anche se per pochi istanti carichi d’odio e di biasimo, e bisogno di quella stretta alla pancia che ti fa sentire vivo solo quando sei nell’azzardo. Più di uno, infatti, propone di chiamare la “ludopatia” non più così ma “azzardopatia”: qualcosa cioè che chiama in causa non il gioco ma l’azzardo. Non è il gioco infatti a far male all’uomo, ma l’azzardo – il “gioco d’azzardo” – e la sua degenerazione compulsiva. L’azzardo che è, propriamente, l’azione che espone al pericolo di perdere la vita senza un motivo ragionevole, anzi per il gioco di sentire di essere in pericolo. E in questo caso, purtroppo per le vittime, la vita che corre il rischio di essere persa non è stata solo quella di Stephens ma quella di tante persone innocenti che avevano la sola colpa di andare passeggio. Come – ripetiamolo – Robert Godwin, 74enne padre di nove figli e nonno di 14 nipoti.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlSussidiario.net