È uno di quei libri che per raccontarlo bisognerebbe scrivere un altro libro. All’inizio la commozione ti sospinge veloce di pagina in pagina, di meraviglia dolorosa in meraviglia gioiosa. Ma quando si avvicina il momento cruciale della storia le pagine diventano pesanti come fossero quelle coi caratteri in piombo di una volta.
Le parole affliggono, sconvolgono, mandano in estasi. A ogni pagina si incontrano frasi ognuna delle quali basterebbe per la meditazione di un triduo pasquale. O, visto che l’autrice e i suoi familiari e amici partecipano a Comunione e Liberazione, per una Scuola di Comunità. Nella parte conclusiva si incontrano gli interventi dei testimoni esterni della storia, che fanno venire in mente la famose parole della prima lettera di san Giovanni: «Sì, la vita si è manifestata, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza; quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi». Storia di vita e di morte, le due facce dell’esistenza, che si aprono sulla vita eterna, resa presente in questo mondo da una piccola vita che nasce e subito muore. Giacomo il mio piccolo missionario è il racconto di una gravidanza e di un parto, quelli con cui Silvia Fasana, comasca, già ostetrica e da otto anni mamma a tempo pieno, mette al mondo un figlio che si sa già che vivrà pochi minuti o poche ore. A meno di un miracolo. E il miracolo accade, ma non è quello che consentirebbe al piccolo Giacomo di vivere, contro ogni pronostico scientificamente fondato, lunghi anni di vita terrena: è il cambiamento del cuore di quanti entrano in rapporto col suo sacrificio e con quello dei suoi genitori. Una strana Via Crucis dove a morire non è chi ha portato la croce, ma colui che ha accompagnato con la sua presenza vitalissima, benché invisibile e afflitta da una patologia mortale, la donna chiamata a portare il suo peso dolce e affliggente.
Dunque la storia è questa. Silvia vive da quattro anni a Dubai con tre figlie e il marito Roberto Avallone, consulente della Emirates Global Aluminium. Resta incinta del quarto figlio e alla seconda visita di controllo, che fa mentre il marito è in viaggio in Italia, scopre che il bimbo da poco concepito è anencefalico, cioè privo della maggior parte del cranio e del cervello. Fuori dal ventre materno non potrà vivere. I medici freddamente propongono l’aborto come la strada meno gravosa, e perfettamente legale, per uscire dall’incubo. Silvia rifiuta sdegnosamente, poi tentenna, poi insieme al marito decide che quel figlio sarà amato e portato in grembo come gli altri, pregando che avvenga il miracolo della sua guarigione ma anche disponendosi a celebrare una nascita e un funerale nello stesso giorno. Perché Dio non inganna, e se permette una prova così difficile, deve essere per un bene, deve essere per un progetto buono, per la conversione e la salvezza di tanti. Silvia e Roberto sono credenti, sono cristiani come la maggior parte dei loro amici, e la storia del piccolo Giacomo è la storia di come la fede di tutti loro viene sfidata da un doloroso imprevisto che impone un’alternativa secca: o la loro fede ne uscirà confermata, maturata e più ricca di carità, oppure smentita come formale e buona solo per i giorni fortunati.
Subito i coniugi chiedono aiuto agli amici, quasi tutti lontani, e anche a molti sconosciuti e sconosciute che non sono veramente tali perché collegati alla catena di fede e di amicizie che da molti anni avvolge la vita di Silvia e Roberto. Ma prima ancora lei si rivolge nella preghiera e nel pensiero a Chiara Corbella, la mamma romana che portò a termine le gravidanze di due figli che sapeva destinati a morire poco dopo il parto, e in seguito mise al mondo un terzo figlio sano, ma al prezzo della propria vita perché per portare a termine quella terza gravidanza dovette rinunciare alla chemioterapia che sarebbe servita a combattere il tumore che nel frattempo l’aveva attaccata. Anche la prima figlia di Chiara, che fu battezzata col nome di Maria, era stata diagnosticata anencefalica. «Questa similitudine di circostanza me la fece sentire da subito vicina, compagna, come una sorella maggiore alla quale chiedere un aiuto speciale», scrive Silvia. «Da quel momento lei e la sua storia sono state per me come un faro nella nebbia, come l’impossibile che diventa possibile, la prova che Dio non tradisce le Sue promesse».
Amici e amici degli amici rispondono copiosamente alle sollecitazioni, telefoniche e via email, di Silvia e Roberto. Si formano gruppi di preghiera, persone vengono a visitarli, una neonatologa da New York esperta in comfort care per neonati gravemente malati si prende cura di loro a distanza. E spuntano famiglie che hanno già vissuto l’esperienza che i coniugi Avallone stanno vivendo. Mamma Monica scrive da Boston del suo Matteo, morto poco dopo la nascita a causa di gravi malformazioni: «Per me e per la nostra famiglia è stato il dono più grande che Dio ci ha fatto. Ti assicuro che anche se è così doloroso e faticoso questo cammino, io mi sento preferita e amata per essere la mamma del mio Matteo già in paradiso!».
L’abbraccio a distanza dei familiari, degli amici di vecchia data e di tante persone che vogliono entrare in rapporto con loro fa sentire Silvia e Roberto meno soli nella prova, ma la carenza di rapporti con persone amiche fisicamente presenti a Dubai si fa sentire: pochi italiani risiedono nella seconda città degli Emirati Arabi per lunghi periodi, chi lavora in posizioni dirgenziali va e viene. Decidono allora di rivolgersi a una missionaria comboniana italiana che avevano conosciuto sul posto e perso un po’ di vista. Non si tratta di una suora qualunque: è madre Rachele Fassera, famosa in tutto il mondo perché per anni si batté per la liberazione delle sue studentesse, rapite nel 1996 dai terribili guerriglieri del Lord’s Resistance Army, quando lei era vicepreside di una scuola femminile in Uganda. Inseguendo disarmata la task force di ribelli che aveva sequestrato 139 ragazze nottetempo, riuscì a farne liberare 109 e a tornare indietro indenne. Poi per anni scosse le coscienze di tutti i governanti dell’Africa e del mondo perché facessero la loro parte per fare tornare a casa le 30 rimaste in prigionia. Non tutte ci riuscirono. È Rachele che comincia a rivelare a Silvia il mistero della piccola vita che porta in seno e del suo destino: «Il tuo Giacomo è un evangelizzatore. È un piccolo missionario. Lui, con la sua vita e la sua presenza, dice sì alla vita. Il Signore ti fa andare in giro fra medici e ospedali perché vuole che tu dica a tutti che Giacomo c’è e che tu non hai voluto abortire. Perché la sua vita vale». Ma la prima a essere evangelizzata è mamma Silvia, ogni giorno che passa più stupita dell’intensità dell’amore che prova per quel figlio che sa che non potrà tenere con sé, del cambiamento del proprio cuore e del modo di guardare le cose, dell’unità coniugale che matura anziché andare in crisi, di scoprire che davvero quella gravidanza è un privilegio che Dio le ha concesso. Ringrazia Giacomo perché le ha fatto capire che il compito dei genitori è accompagnare i figli al loro destino, senza pretese di possesso: «Ci hai insegnato che l’amore vero è quello gratuito, che non si aspetta nulla in cambio e che si sperimenta solo nel donare la propria vita. Tu hai donato la tua vita a noi in questi mesi e noi l’abbiano donata a te, con la nostra fatica e il nostro amore». La fatica è tanta, e il libro la racconta senza ipocrisie: i pianti solitari, la tristezza di vedere gli altri genitori giocare coi loro bambini piccoli o aspettare un figlio che nascerà sano, la difficoltà di spiegare quello che succederà alle figlie bambine, i tremendi ostacoli pratici legati al fatto di trovarsi in un paese straniero con una cultura e un sistema legale profondamente diversi da quelli italiani, di dover trovare un ospedale disponibile a lasciare il neonato insieme ai genitori per il poco tempo di vita che gli è pronosticato, di dover preparare un funerale e il trasporto della salma in Italia mentre ancora il bambino deve nascere. «Non ho mai negato e mai lo farò, né sminuito il dolore immenso che ho vissuto e vivo tuttora e la fatica grandissima del lasciarti andare», scrive Silvia. «Non voglio sembrare una superdonna invasata che dice cose astratte e senza senso. Racconto che abbiamo vissuto nel dolore, ma anche che abbiamo fatto un’esperienza vera di pace e letizia inimmaginabili. E i nostri amici ne sono testimoni».
Arriva il giorno della nascita terrena e della nascita al Cielo di Giacomo. In ospedale con Silvia ci sono il marito, le figlie, i genitori, amici e suor Rachele. Dopo il parto indotto Roberto prende in braccio il bambino e lo battezza, alla presenza delle figlie. Poi i due genitori fanno uscire tutti e si sdraiano su di un divano insieme a Giacomo, occhi gonfi, scuro di pelle, respiro impercettibile, un cappellino celeste chiaro a proteggerlo. «Eravamo in camera finalmente noi tre e abbiamo provato una pace infinita. Una pace che non è di questo mondo. Così ci siamo messi tutti e tre insieme sul divano letto della camera. Tu in mezzo a noi. Ti tenevamo la mano, sia io che il tuo papà, e tu ci stringevi il dito. Non riuscivo a smettere di guardarti, eri un po’ un ranocchietto, con gli occhi gonfi, ma per me eri bellissimo. Eri il mio bambino adorato. In quel momento, con una grande serenità arrivata dall’alto, ho detto: “Signore, prendilo tu adesso”. Capivo che dovevo lasciarti andare, anche se era la cosa più difficile del mondo. Ho richiuso gli occhi per la stanchezza e quando li ho riaperti poco dopo tu eri già in paradiso. 7 ore e 44 minuti di vita. Di abbandono totale nelle mani di Dio. Non dimenticherò mai queste ore. Sono state meravigliose, le più belle della mia vita. Tu, Giacomo, hai davvero cambiato la nostra vita».
È passato più di un anno e mezzo da quel giorno, e Giacomo è vivo più che mai nella memoria di chi ha conosciuto la sua storia e ha incontrato i suoi genitori. La parola a cui ricorrono più spesso per ricordare quella vicenda è “miracolo”. Ora Silvia ha scritto un libro che vuole «dare speranza e sostegno a chi si trova in una situazione di fatica e di dolore», che continuerà l’opera che Dio ha affidato a Giacomo in questo mondo, rovesciando gli schemi di tutti, compresi quelli dei suoi genitori. Come dice bene suo padre Roberto: «Sarebbe stato molto più facile e più bello pensare che la mia fede potesse essere testimoniata dalla bellezza della nostra vita, della nostra famiglia, dal rapporto con gli amici, e invece Lui ci aveva donato questo bambino, il più piccolo fra i piccoli, un bambino che per il mondo non valeva niente». E come sta scritto nella prima lettera ai Corinti: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti».
Fonte Giacomo, il mio piccolo missionario