Non per realismo ma per fede è urgente un accordo tra Santa Sede e Governo cinese. Si potrebbe sintetizzare così la recente intervista rilasciata alla ‘Civiltà cattolica’ da padre Joseph Shih, un anziano gesuita di Shanghai, per molti decenni professore in Gregoriana e direttore della sezione cinese della Radio Vaticana. Oggi tutto è fermo in attesa dell’ormai imminente XIX Congresso del Partito comunista cinese che si aprirà a Pechino il prossimo 18 ottobre.
Le previsioni più diffuse indicano un rafforzamento di Xi Jinping, che secondo alcuni resterà segretario del partito e presidente della Repubblica non per altri cinque anni, ma per altri dieci. Sarebbe un’innovazione rilevante rispetto ai suoi predecessori nell’era post-maoista, che si collegherebbe tuttavia a una tendenza di fondo del potere politico in Cina. La Repubblica popolare, infatti, ha ereditato dal suo passato imperiale una concezione assoluta del potere, che non conosce il principio di autolimitazione, così importante nell’orizzonte occidentale, e che si ferma solo quando è costretto dalla forza di un altro potere. Ma la voce del Papa non giungerà al XIX Congresso del Pcc: Santa Sede e Chiesa cattolica non hanno la forza di contrastare il potere cinese e il loro approccio deve essere un altro.
Padre Shih lo spiega chiaramente. «Spero che la Santa Sede e il Governo cinese raggiungano presto un accordo sulla nomina dei vescovi in Cina», ha detto nel maggio scorso. E ora aggiunge, dando per scontata una fedeltà dei cattolici cinesi al Papa che ha già generato tanti martiri: se la Santa Sede si opponesse al governo cinese, «la Chiesa in Cina sarebbe costretta a scegliere tra questi due, e sceglierebbe necessariamente la Santa Sede». Ma la maggior parte dei cattolici cinesi sarebbero «costretti ad andare altrove e a diventare così ospiti o profughi». Resterebbero cattolici, dunque, ma non più cinesi, privando il loro Paese di una testimonianza di fede cristiana. Il Vangelo potrebbe non essere più annunciato in Cina.
È una conclusione confermata dal caso del vescovo di Shanghai, Taddeo Ma Daqin. Ordinato il 7 luglio 2012, con l’approvazione della Santa Sede e del Governo cinese, il giorno della sua ordinazione ha respinto l’imposizione delle mani da parte del vescovo illegittimo Zhan Silu e ha dichiarato di non voler assumere nessun incarico nell’Associazione patriottica. Per questo, gli è stato subito impedito di esercitare le funzioni episcopali ed è stato confinato nel santuario di Sheshan. Ma Daqin, insomma, si è opposto al potere cinese, seguendo forse i consigli di quanti «fuori della Cina si preoccupano per la sorte dei cattolici in Cina in maniera non giusta, danneggiando la Chiesa», per usare le parole di padre Shih. A che cosa è servito? Dal 2012 la grande diocesi di Shanghai è senza vescovo, tutto è bloccato, il clero è isolato e diviso, non vengono più formati nuovi sacerdoti e molte urgenze pastorali e missionarie non trovano risposta. Non si tratta di un caso isolato: in molti luoghi della Cina, la Chiesa cattolica è bloccata dal braccio di ferro tra Santa Sede e Governo cinese e dalle divisioni che ne conseguono tra cattolici ‘ufficiali’ e ‘clandestini’, proprio mentre una nuova domanda religiosa sta attraversando questo grande Paese e sono numerosi coloro che si convertono al cristianesimo.
Non c’è dunque nulla da fare? Anche nei momenti più difficili, la speranza cristiana accende una luce. È accaduto molte volte ai cattolici cinesi e può accadere di nuovo. Questa speranza ha spinto Ma Daqin a scrivere, nel giugno 2016, un lungo testo per spiegare che aveva cambiato idea sull’Associazione patriottica e a concelebrare, nell’aprile 2017, con Zhan Silu. Il vescovo di Shanghai è stato accusato di essere un voltagabbana e un traditore. Ma chi lo conosce bene assicura che non è né l’uno né l’altro. Tutto ciò che ha fatto ha un unico scopo: sbloccare la situazione, salvando la diocesi di Shanghai da una situazione stagnante.
Ma Daqin ha spiegato la sua scelta ricordando che, dopo la persecuzione subita dai credenti durante la Rivoluzione culturale, la Chiesa è rinata a Shanghai grazie all’opera coraggiosa del vescovo Jin Luxian, liberato dopo diciotto anni di prigione. Inizialmente non riconosciuto da Roma, Jin Luxian si è avvalso della collaborazione dell’Associazione patriottica per raccogliere nuovamente i fedeli, riprendere la celebrazione della Messa in tanti luoghi della città, riaprire il Seminario, stampare e diffondere la Bibbia e altri libri religiosi, fondare associazioni di intellettuali cattolici, promuovere opere sociali… Per trent’anni, la Chiesa di Shanghai ha rappresentato un esempio felice di ripresa del cattolicesimo in Cina e la Santa Sede ha sanato l’illegittimità della ordinazione episcopale di Jin Luxian, accogliendolo nella comunione della Chiesa universale. Roma, infatti, ha riconosciuto la sua profonda fedeltà al Papa anche in tempi difficili.
Jin Luxian non si è mai opposto frontalmente al potere cinese e ora anche il suo successore pensa che sia questa la strada da percorrere. Il potere assoluto, infatti, vuole controllare tutto e rifiuta il compromesso, ma non esclude la tolleranza, spiega padre Shih. Lo pensava già Matteo Ricci che ha attraversato tutta la Cina per chiedere e ottenere la tolleranza dell’imperatore verso l’insegnamento del Vangelo. Lo pensano oggi anche molti cattolici cinesi, non sempre capiti da quanti vivono lontano dalla Cina, ma che con la loro vita testimoniano una ‘sopravvivenza’ del cattolicesimo in questo grande Paese a lungo ritenuta impossibile. Nell’incontro interreligioso organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Munster, il vescovo di Haimen, Shen Binh ha detto: «Nell’attuale fase della storia cinese tante cose sono cambiate e stanno ancora cambiando. Vent’anni fa non potevamo pregare pubblicamente per il Papa. In ogni Messa, adesso, preghiamo per papa Francesco. Non solo. Seguiamo il suo magistero».
Sono voci che giungono anche a Roma dove, più che altrove, sono custodite le memorie delle vicende dolorose di tanti cristiani in due millenni di storia. La Chiesa di Roma si è sempre preoccupata che la fede continuasse a essere trasmessa in tutto il mondo e con Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco non si è mai smesso di cercare la via di un accordo con la Cina. Non sono mancate le voci critiche, come quelle del cardinale Joseph Zen Ze Kiun e di monsignor Savio Hon Tai Fai, entrambi di Hong Kong, geograficamente vicina e culturalmente lontana dalla Cina. Ma dal 2009, il cardinal Zen non è più vescovo del ‘Porto profumato’ e ora monsignor Savio Hon non è più Segretario di Propaganda Fide.
Intanto, nella grande Cina cresce l’urgenza di superare un contenzioso che da settant’anni continua a frenare la diffusione del Vangelo. Per la svolta di cui c’è oggi bisogno non basta il realismo, ci vuole la fede. Anche la straordinaria capacità diplomatica di Agostino Casaroli si è fermata alle soglie della Cina, ha notato Andrea Riccardi. La prima apertura cinese verso la Santa Sede si trasformò nel 1981 in scontro per un braccio di ferro sulla nomina del vescovo di Canton. Da allora, lo stesso copione si è ripetuto molte volte. Oggi, però, la grande simpatia manifestata da papa Francesco verso il popolo cinese sin dall’inizio del suo pontificato ha fatto compiere molti passi avanti al rapporto tra la Chiesa e la Cina. È a questa simpatia che si devono ispirare scelte nuove e coraggiose, non per cercare un impossibile compromesso, ma per aprire la strada ad un più rapido cammino del Vangelo.
Fonte avvenire.it – Agostino Giovagnoli