“Come si gioca col mio bambino, puoi spiegarmelo?” è una delle domande ricorrenti a cui deve rispondere Stefania Moroni, la responsabile di “A mani tese”, il progetto pensato per quelle famiglie che si ritrovano ad affrontare la primissima fase dell’accoglienza di un bambino con disabilità, dalla notizia della diagnosi ai suoi primi mesi di vita.
I genitori di un bambino con disabilità complessa, in quattro e quattr’otto, sono obbligati ad acquisire una serie di disparate competenze di “caregiving”, dai rapporti con i servizi sanitari a quelli sociali, educativi, facendo i conti soltanto sulle proprie forze. E proprio per dare loro un primo aiuto è partito, da poche settimane, questo progetto promosso dall’associazione “L’Accoglienza”, che coinvolge 24 famiglie di Roma, con l’obiettivo di affiancare per un tempo definito queste famiglie, perché “meglio di una mamma ed un papà nessuno può conoscere ed accudire il proprio piccolo”.
Eppure la paura più forte di questi genitori è quella, dopo le dimissioni del bambino, di tornare a casa e sentirsi impreparati a gestire la routine. “Non sono mai stata a casa e da sola di notte col mio bambino, siamo stati fino adesso nella terapia intensiva dell’ospedale”, racconta la mamma di un bimbo di 13 mesi con una malattia rara, che ha chiesto di poter utilizzare questo servizio sostenuto dalla Fondazione Charlemagne e dalla Tavola Valdese con i fondi dell’8 per mille.
“Ad incontrare bambini con disabilità, grazie al nostro lavoro, siamo pronti: tutti i piccoli accolti nelle nostre case famiglia, in questi anni, sono stati dei preziosi maestri, ma questa volta mi sono chiesta se i genitori si sarebbero fidati di noi: in fondo non è facile affidarsi ed affidare il proprio figlio”, spiega Stefania Moroni. “A mani tese”, infatti, nasce dal desiderio di allargare alla comunità l’esperienza accumulata dall’associazione romana che da anni gestisce tre case famiglia per minori con disabilità.
“Poi è arrivata la telefonata della prima mamma, venuta a conoscenza del nostro progetto attraverso l’ospedale Gemelli. La prima volta che ci siamo incontrate ci ha raccontato tutto l’iter ospedaliero del piccolo dalla nascita ad oggi. Man mano che lei elencava i vari medici e noi le dicevamo di conoscerli, raccontando anche nostri piccoli aneddoti vissuti con quel dottore particolare, mi è sembrato che si creasse una sorta di complicità”, racconta Stefania.
Il progetto prevede anche ore di babysitteraggio esperto e week end di sollievo. “Un’altra mamma coinvolta fu categorica: ‘Tutto il mio tempo è per mio figlio’, ma quando, a distanza di un mese, abbiamo individuato assieme gli obiettivi del nostro percorso mi ha chiesto: ‘Davvero potrei andare a mangiare una pizza?’, mi è sembrato un gesto di fiducia e di prova insieme”, conclude Stefania Moroni.
Un centro di ascolto familiare dal nome “Non Siete Soli”, l’attivazione di un gruppo di mutuo aiuto tra genitori, counselling di coppia completano i servizi erogati dal progetto, perché questi bambini non vengano più visti come bambini-isola in cui tutto ruota intorno alle loro condizioni sanitarie, ma possano essere se stessi, diversi da ciascun altro e comunque molto oltre i loro limiti. (Carmela Cioffi)
Fonte www.redattoresociale.it