“Il primo anno c’è il dolore. E l’adrenalina. Il secondo ricostruisci tutto quello che puoi, per ripartire. Ma il terzo anno è il momento peggiore, quello in cui capisci che ci vorrà tempo, tanto tempo. Allora ti chiedi: e adesso cosa faccio?”. Filippo Palombini, dall’ufficio che fu di Sergio Pirozzi nella sede provvisoria del Comune di Amatrice, guarda fuori verso il grande spazio vuoto dove una volta c’era la scuola Romolo Capranica come volesse trovare in quell’assenza una risposta. Lui sa di essere tutto sommato fortunato, perché è il sindaco dell’unico paese che è davvero tornato a vivere tra quelli del cratere del terremoto del 24 agosto del 2016: Accumuli, Arquata e Pescara del Tronto, così come le frazioni distrutte da quella prima infernale scossa, oggi sono borghi morti e domani chissà. Ma anche lui fatica a individuare nel presente un futuro per la sua gente. Eppure i segnali di rinascita ci sono, eccome se ci sono.
Certo, c’è da rilanciare un territorio che anche prima del terremoto si stava spopolando, ma lo Stato non è rimasto fermo e tornare dopo due anni tra i monti della Laga serve anche a questo, a capire che le istituzioni, locali e nazionali, hanno lavorato e tanto: le casette sono state consegnate a tutti, le attività produttive, seppur a fatica, hanno ripreso a girare, i negozi e i ristoranti hanno riaperto nei centri commerciali tirati su dal nulla; a settembre le nuove scuole sostituiranno quelle provvisorie – perché è dai giovani che bisogna ripartire -, le strade sono state rimesse a posto.
E allora qual è il problema? Quello di cui parla Palombini: il tempo. Gli anni, almeno sei se tutto va bene, che ci vorranno per rivedere questi paesi ricostruiti. Se saranno ricostruiti.
E’ il tempo l’incubo di tutti. “Le cose le stanno facendo ma se continuano a mettere strutture provvisorie è inutile parlare di rinascita”, dice Vinicio Buzzoni. Il suo laboratorio per la realizzazione di infissi in alluminio è ancora tra le macerie di piazza Sagnotti, dove sono crollate le case popolari uccidendo oltre 20 persone. Sarebbe inagibile, ma non ha un altro posto dove andare. “Esci? e dove vai? Quando l’inverno fa buio alle cinque ci spariamo. Qua è tutto provvisorio”.
Amatrice in effetti è un paese appeso, tra quel che è oggi e e quel che sarà domani. La vita è ripresa tutta attorno ai centri commerciali e all’area food, ma la vera buona notizia è che le macerie, finalmente, stanno sparendo. Non c’è più niente della vecchia scuola, se non i disegni delle mani dei bambini sul muro accanto al cancello, della caserma dei carabinieri è rimasta solo l’insegna. Quasi tutto l’intero lato sinistro di quello che era il paese, per chi arriva da Roma, è completamente spianato: dell’hotel Roma non c’è neanche più il basamento, al posto del convento delle suore hanno messo un enorme macchinario che tritura pietre e cemento, dove c’era l’ospedale c’è oggi un gran buco. Sul lato destro invece, dove c’è quel che resta della chiesa di San Francesco, qualche palazzo è ancora in piedi, ma il sindaco conta di aver spianato anche quello per dicembre. “Entro il 2019 dovremmo aver fatto la progettazione, per poi partire con i cantieri. Ma entro primavera – dice Palombini – voglio vedere le gru ad Amatrice, se le vedi vuol dire che stiamo ripartendo. Io per tirarmi su faccio così, vado a l’Aquila e guardo la miriade di gru. Quello è il simbolo della rinascita, se ne parte una partono tutte”.
Della vecchia Amatrice resteranno cinque simboli: il Museo Civico, la chiesa del Purgatorio, San Francesco, Sant’Agostino e la torre civica, che oggi è tenuta insieme e nascosta da travi di legno e tiranti d’acciaio: hanno coperto anche l’orologio, fermo alle 3,36 di quel 24 agosto. E’ attorno a loro che nascerà il borgo nuovo. “Dobbiamo essere franchi – ancora Palombini – quel che potevamo fare l’abbiamo fatto: le case, i negozi, la scuola, la microzonazione sismica. Ora dobbiamo migliorare la vita nelle casette. Perché i prossimi anni saranno precari e noi dobbiamo essere bravi e uniti”.
Ma se Amatrice è precaria ma viva, tutto il resto del cratere sembra morto. Da Sant’Angelo a Saletta fino a San Lorenzo a Flaiano le frazioni sono un concentrato di niente: le uniche macerie tolte sono quelle che rendevano pericoloso il transito sulla strada principale, non c’è un operaio al lavoro, le casette spuntano all’improvviso in mezzo al nulla. All’ingresso di Accumuli un posto di blocco dell’Esercito controlla che i documenti di chi entra. Ma poi una volta nel paese ti assale un sensazione di vuoto. Tutto è immobile. Anche il portone della chiesa rimasto in piedi tra le pietre. L’erbaccia tra prendendo il sopravvento sulle macerie.
“Prima me ne andavo a spasso per il paese, ora se ci entro mi si crepa il cuore – racconta Mario Marotta mentre dietro la sua casetta si occupa del piccolo orto – Io non cambierei Accumoli neanche con Roma o New York, ma qui non c’è proprio più nulla. Prima il tempo volava, ora non passa mai e quando piove ti rimbambisci dentro casa”. Stessa la sensazione dei sopravvissuti di Pescara del Tronto, che deambulano nel villaggio delle Sae costruito sulla Salaria, sotto il paese. Lassù non ci tornano neanche loro. Non ci torna più nessuno perché tutti sanno che Pescara non rinascerà più lì. E poi non c’è nulla da vedere, se non un enorme cratere pieno di macerie. Un mondo morto per sempre.
Fonte Ansa.it/Matteo Guidelli – Foto Di Claudio Peri