I bus sfrecciano veloci scaricando alle fermate gruppi di persone che rientrano a casa dopo una giornata di lavoro. Il quartiere si rianima per riaddormentarsi di lì a poco. Siamo nel quadrante sud della Capitale, una zona densamente popolata, un “quartiere dormitorio”, come lo definiscono i suoi abitanti, caratterizzato da un grande centro commerciale, pochi altri negozi e una parrocchia circondata dai palazzoni. In giro soprattutto anziani accompagnati da badanti. I segni della crisi qui si vedono anche in alcuni edifici che un tempo ospitavano aziende, oggi fallite, e per questo rimasti vuoti. Ma non tutti. La crisi morde e a farne le spese sono soprattutto tante famiglie che di punto in bianco si sono ritrovate senza lavoro e impossibilitate a far fronte anche alle spese abitative. In mezzo a una strada, senza un tetto. Alcuni di questi palazzi vuoti oggi sono occupati da decine di famiglie, italiane e non, che ne hanno fatto la loro dimora, come raccontano Filippo e Gloria (i nomi sono di fantasia). La loro è una storia di precarietà, come quelle di tante altre coppie giovani e meno giovani, che trovatesi in difficoltà, hanno scelto l’occupazione come rivendicazione di un diritto sociale inalienabile, quello “alla casa”.
Perdere tutto. “Siamo stati in affitto fino al 2007 – ricorda Filippo, lavoratore nel settore edile e disoccupato dopo che la sua ditta ha chiuso i battenti – quando alla scadenza di contratto il proprietario ci ha proposto un rinnovo a 1200 euro mensili, dai poco più di 200 che pagavamo. All’epoca lavoravo, non avevo molti problemi, ma quella cifra era davvero troppo alta”. “Da lì è cominciato il nostro Calvario” lo incalza la moglie Gloria, mentre prepara una tazzina di caffè. “Per noi perdere la casa è stato perdere tutto – dice Filippo – trovarsi improvvisamente in mezzo alla strada ha significato ricominciare tutto da zero. E quando si hanno figli da crescere tutto è più difficile. Dopo un periodo passato in un residence, assegnatoci dal Comune, abbiamo dovuto lasciare anche quella sistemazione. Se non sei amico di ‘qualcuno’ in qualche ufficio municipale è difficile trovare un alloggio adeguato o avere indicazioni utili per farne richiesta. Così grazie all’Asia, l’associazione per il diritto alla casa, abbiamo trovato, sei anni fa, una sistemazione in questo stabile occupato”.
Quale futuro? “L’impatto – dice Gloria – non è stato dei migliori. Come donna e come madre dormire in promiscuità, in ambienti sovraffollati, con sconosciuti, con tanti bambini, non è stato facile. Non potevamo lavarci, era difficile cucinare, pulire. Tuttavia la nostra dignità non è venuta mai meno. Quando ci si trova in una condizione di disagio i muri cadono, le differenze si azzerano. Così, nonostante le difficoltà oggettive, con tutte le altre famiglie ci siamo adoperati per dare un aspetto di casa a quegli ambienti che erano stati concepiti per ospitare degli uffici”. In collaborazione con l’associazione le oltre 100 famiglie occupanti hanno cominciato così a ridistribuire gli spazi dell’immobile tenendo conto delle esigenze delle persone, del numero dei componenti del nucleo familiare, adeguare di conseguenza il sistema elettrico, idraulico e sanitario. Ma i problemi non erano solo dentro l’immobile ma anche fuori. “Ci sentivamo addosso lo sguardo della gente del quartiere. Eravamo visti male, ci veniva data la colpa di ogni crimine commesso in zona. Oggi, però, la situazione è migliorata grazie anche all’attività della parrocchia che non ci fa mancare il suo aiuto, materiale e non, quando qualcuno di noi ha bisogno. Cerchiamo di vivere in questi alloggi dignitosamente, abbellendoli per ciò che possiamo” spiega Filippo mentre il suo sguardo si posa su alcuni disegni ricchi di colori appesi alle pareti. “Nei sei anni che siamo qui nel palazzo sono nati 30 bambini” dice Gloria sorridendo. “Ed è soprattutto per loro – aggiunge il marito – che continuiamo la lotta per un alloggio. Con l’associazione Asia andiamo in piazza per reclamare il diritto alla casa. Ce ne sono tantissime a Roma vuote, di enti e istituti da assegnare”. Non mancano le tensioni quando si è in piazza a protestare, ammette Filippo, “quando ti trovi faccia a faccia con un celerino non dobbiamo mai perdere il controllo. Non puoi certo sputargli addosso. Siamo consapevoli che la polizia sta facendo il suo mestiere ma noi chiediamo solo i nostri diritti. Non pretendiamo favori. Vogliamo pagare quello che si deve, luce, gas. All’Acea abbiamo pagato bollette mensili di migliaia di euro per la luce nei nostri alloggi. Soldi raccolti nelle famiglie del palazzo. Purtroppo le nostre manifestazioni spesso vengono strumentalizzate da gruppi violenti che provocano incidenti. E ciò nuoce alla nostra lotta e al nostro futuro, se mai esiste un futuro”.
Già il futuro. “Non vediamo tanta luce in fondo al tunnel – ammettono Filippo e Gloria senza troppi giri di parole – a volte parlando tra noi pensiamo sia meglio restare qui ancora a lungo. Se dovessimo uscire, infatti, come potremmo mantenere una casa, pagarne l’affitto, anche agevolato, le spese? Non abbiamo un impiego e con quello che si riesce a guadagnare con lavori saltuari non ti puoi permettere molto. Sembra assurdo – ridono amaramente – ma avere una casa oggi per noi significherebbe un salto nel vuoto. Un lavoro sarebbe un ottimo paracadute per ricominciare a vivere come vorremmo. Non vogliamo perdere la speranza e per questo non ci arrendiamo”. di Daniele Rocchi per l’Agenzia SIR