La vera teologia è quella “fatta in ginocchio”. L’espressione appartiene al teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, il quale fissa il contrasto tra una teologia fatta a tavolino e una, appunto, fatta in ginocchio (“Teologia e santità”, 1968). Lo stare in ginocchio non richiama alcuna manifestazione pietistica o devozionale, sostitutive del rigore scientifico, necessario e frutto di studio e di ricerca, ma pone l’accento sulla posizione interiore del teologo, che è analoga a quella di san Paolo sulla via di Damasco: afferrato da un raggio della gloria di Cristo, è buttato in ginocchio per adorare. Questa l’immagine viva del teologo o, almeno, il punto da cui partire per fare teologia e l’ambito in cui rimanere.
Oggi l’espressione è frequentemente ripresa da Papa Francesco con sfumature diverse. Nel corso del recente Concistoro, dopo la relazione introduttiva del cardinale Walter Kasper sulla teologia del matrimonio ringraziò vivamente il porporato dicendo di aver trovato “un pensiero sereno nella teologia. È piacevole leggere teologia serena. E anche ho trovato quello che sant’Ignazio ci diceva, quel sensus Ecclesiae, l’amore alla Madre Chiesa (…) mi ha fatto bene e mi è venuta un’idea – mi scusi, Eminenza, se la faccio vergognare – ma l’idea è che questo si chiama fare teologia in ginocchio”. Dalla preghiera e dall’adorazione scaturiscono, dunque, una teologia serena e piena d’amore per la Chiesa.
La teologia, ma anche la predicazione e la catechesi sono serene quando, per esempio, si cura il modo di presentarle; in questo senso è importante non solo “ciò” che si dice, ma anche “come” lo si dice, dal momento che il modo fa parte del contenuto e non è una semplice circostanza esterna (Juan Carlos Scannone). Così, quando “si fa in ginocchio” in atteggiamento di preghiera e di adorazione e per il servizio del Signore la comunicazione serena della fede si rivela dal tono della voce, dai tratti del volto, dai gesti e, nel caso di uno scritto, dalle figure retoriche, dalle interiezioni, e persino dalla punteggiatura.
Quando recentemente il Papa ha parlato ai professori e agli studenti della Pontificia Università Gregoriana ha invitato a realizzare la filosofia e la teologia “con mente aperta e in ginocchio”. Ecco un altro elemento: l’atteggiamento adorante del teologo ha come frutto la capacità di restare sempre aperto verso il “di più”, verso la grandezza della verità di Dio. In questo senso il discorso teologico ha sempre una sorta di costitutiva incompiutezza. Al contrario, il teologo, ma anche il predicatore o il catechista che si compiaccia del proprio pensiero, della propria visione, che ritiene completa, è un mediocre. Talvolta, ci si chiude nelle proprie posizioni per timore della novità, che scaturisce dalla conoscenza profonda del mistero di Dio, da quella che proviene dall’incontro con l’altro e con la storia. Non di rado, la paura della novità conduce anche ad attaccare l’altro. E si dimentica che la verità deve essere sempre espressa nella carità.
Infine, ricevendo il 28 giugno la delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, il Papa ha auspicato che “il lavoro della Commissione mista internazionale possa essere espressione di questa comprensione profonda, di questa teologia fatta in ginocchio”. Il cammino verso la piena unità passa attraverso il dialogo teologico, che nasce e cresce nella contemplazione del volto di Dio, dello sguardo che egli ha verso i credenti. Lo sguardo su Dio, nutrito di fede, speranza e carità, genera una riflessione teologica autentica, capace di avvicinare gli uni agli altri, pur partendo da posizioni differenti. Di Marco Doldi per Agensir