Esce oggi in libreria “Ciò che inferno non è” il nuovo romanzo di Alessandro D’Avenia, l’autore che con “Bianca come il sangue” e “Cose che nessuno sa” non solo ha venduto milioni di copie in diciannove lingue ma che, da quattro anni, è praticamente ogni settimana nella classifica dei libri più venduti. “Ciò che inferno non è” è la storia, ambientata a Palermo, di Federico, diciasettenne, che un’estate, invece di partire per una vacanza-studio ad Oxford, incontra il suo prof di religione, Padre Pino Puglisi, che gli propone di aiutarlo con i bambini del quartiere per i quali – sembra – l’unico comandamento da rispettare è quello di Cosa Nostra.
Un romanzo, prima che delle idee, contiene delle persone, delle storie. Dopo “Bianca come il latte”, del 2010, e “Cose che nessuno sa”, del 2011, per questo tuo romanzo ci sono voluti tre anni. C’è stato qualche incontro, qualche vicenda, che ha acceso in lei l’urgenza per questo libro?
Non avevo in programma di scrivere questo libro, stavo già lavorando ad altri progetti, ma ad un certo punto la storia ha avuto il sopravvento, come uno di quegli incontri per strada che ti obbligano a cambiare i tuoi programmi. Leggevo la confessione dell’assassino di don Pino, divenuto collaboratore di giustizia. Puglisi gli ha sorriso nell’attimo in cui stava per sparargli. Uno dei killer più efferati della mafia dice che per quel sorriso “non ci ha dormito la notte”. Quella frase è esplosa dentro di me come dinamite. Volevo capire come si fa ad essere così liberi da sorridere alla morte e ai suoi scherani. Quel sorriso liberava persino l’assassino dal suo gesto e lo costringeva a rivedere tutta la sua vita, tanto da non dormirci la notte. Quel sorriso diceva: tu sei molto di più di quello che stai facendo a me. Riecheggiava il “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Volevo scandagliare, da uomo e da narratore, il mistero di quel sorriso. Chi sa morire così sa anche vivere e insegna a vivere a chi resta. Volevo libererare l’agiografia e la cronaca dalla loro retorica o appiattimento e cogliere in che modo un capitolo della storia della salvezza si compiva in quel momento. Poi ci sono state la beatificazione per martirio di Puglisi e l’assegnazione del premio a lui intitolato. Altri incontri, altri volti, altre persone. È come se quell’uomo che avevo conosciuto nei corridoi della mia scuola mi desse la caccia. Il suo romanzo sulla mia carne lo aveva già scritto, ma era come se quella carne dovesse diventare di molti, attraverso la carta. Col senno di poi credo sia stato un tocco della grazia.
“Bianca come il latte” e “Cose che nessuno sa” sono stati anche successi internazionali. Il primo, in particolare, è stato tradotto in ventidue lingue. Ma entrambi erano ambientati in città che potevano essere una qualsiasi metropoli europea. Qui invece scegli Palermo. Perché questa decisione? non temi che possa non essere compresa dai tuoi lettori?
Il contrario. Lo comprenderanno ancora meglio. Più una storia è incarnata più può essere universale. È una città paradossale: di luce e lutto, di paradiso in una via e inferno girato l’angolo. È uno dei personaggi del romanzo e determina tutti gli altri come un fato incombente. Come nel cinema noir della metà del secolo scorso si tratta di un paesaggio reale e simbolico, nel cinema l’uso del campo lungo sugli ambienti determinava i sentimenti del personaggio, che ne diveniva una tessera, venivano messi a fuoco sia il personaggio sia l’ambiente come se fossero tutt’uno: luce e tenebra erano parte del personaggio. Il romanzo è un atto d’amore verso Palermo, ma di quell’amore che Borsellino definiva così: “Non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Metto a fuoco Palermo nei dettagli, perché è Palermo che ha messo a fuoco la mia anima e i miei personaggi. In questo romanzo le due città, quella di Dio e quella degli uomini, intuite da Agostino, si intersecano nella luce e nelle tenebre, e Palermo ha di certo i connotati, i profumi, i colori reali, ma allo stesso tempo è la città degli uomini di tutti i tempi, quella in cui nelle tenebre la grazia si fa strada. Chi leggerà con attenzione coglierà un sottotesto continuo nella storia, quello che lega il dramma della storia a Dio.
Padre Pino Puglisi (3P, come viene soprannominato nel libro) è stato beatificato da Papa Francesco ed è stato tuo insegnante a scuola. Credo che Ciò che inferno non è sia il primo romanzo laico, a grandissima tiratura, che corra il rischio di avere tra i suoi protagonisti un santo. Come sei riuscito a non cadere nell’agiografia di don Pino?
Era la sfida principale. Volevo io per primo capire se la cronaca era già agiografica, o se invece la cronaca fosse la manifestazione di un tratto di storia della salvezza, della storia sacra del chinarsi di Dio sull’uomo. Romano Guardini scrive così: «Nessuno prende la realtà sul serio come il santo perché in verità ogni fantasticheria, sulla sua strada irta di pericoli, inesorabilmente si vendicherebbe. Divenire santo significa per l’uomo reale staccarsi da sé, per entrare nel Dio reale». Raccontare la santità è raccontare il massimo realismo e l’uomo Puglisi entrerà nel cuore anche dei non credenti, perché il santo è la pienezza dell’uomo e di fronte ad un uomo tutto d’un pezzo non si può che rimanere affascinati, come è accaduto a me. Mi sono documentato meticolosamente, seguendo anche le tracce del processo di beatificazione, per cogliere questo realismo del santo. E ho trovato gli ingredienti di un’epica quotidiana che ci riguarda tutti. Come trasformare la prosa di ogni giorno nella poesia di una vita bella? La storia racconta questo, ciò che inferno non è in mezzo all’inferno.
Cosa nostra sarà sconfitta quando non ci vorranno più gli eroi per sconfiggerla ma sarà diffusa la normale “eroicità” di chi è onesto e lavora per il bene. Da quello che si è potuto desumere finora dal tuo romanzo pare essere questo un’insegnamento importante che è contenuto lì. Mi sbaglio?
Proprio così. Il mio non è un romanzo anti-mafia, non è un romanzo sulla mafia, non è un romanzo di cronaca. È una storia che entra nel mistero del sacrificio: che non è il fatto in sé di morire, ma quello che significa alla lettera (sacrum facere: rendere sacro). 3P rendeva sacre le vite che incontrava perchè erano rese sacre da Dio e lui non era altro che al servizio di quelle vite. Riecheggiano le parole di qualcuno: non siete voi che mi togliete la vita, sono io che la dono. Sacrificarsi è donare il proprio tempo, amore, cure, anche quando è difficile riuscire. Lui riusciva perché lasciava che Dio facesse questo con lui. Era innamorato pazzo di Cristo e questo amore traboccava. Credo che chiunque gli si accostasse vedeva un uomo qualunque capace di amare divinamente, sentiva la tenerezza di Dio su di lui, come accadde persino all’assassino. L’eroismo è questo: giorno per giorno non privarsi mai della possibilità di amare ed essere amati. Per questo ho scelto la frase di Dostoevskij in esergo: “l’inferno è la sofferenza di non poter più amare”. Chi trova il segreto per amare sempre nel quotidiano, trova il segreto della vita: fallimenti, sconfitte, cadute non possono distruggere la speranza, perché quella speranza si colloca altrove. In un altrove intoccabile, come un mare in tempesta in superficie e calmo pochi metri sotto.
Dicci ora qualcosa del tuo modo di scrivere. Nei pochi brani che sono stati resi noti la tua prosa pare più piena di luce, più ricca della pasta delle cose: forse, qualcuno dirà, più difficile. È così? c’è stato qualche cambiamento rispetto ai tuoi primi successi.
Leo di “Bianca come il latte” aveva accanto a sé Beatrice e Silvia. Federico che compagna trova al suo fianco?
Lucia. Anche questo un nome parlante. Federico è tutto cuore, sogni e poesia. Lucia quei sogni e quella poesia non può permetterseli. Abita a Brancaccio, il quartiere “infernale” dove alla morte di Falcone i ragazzini inneggiavano “abbiamo vinto, la mafia ha vinto”. Ma proprio l’avvicinarsi di loro due, tra mille ostacoli, li porta su un piano più alto entrambi: la realtà entra nei sogni di Federico, e i sogni entrano nella realtà di Lucia. Cercano, come tutti noi, il filo di Arianna che ci consente di affrontare il labirinto della vita e tornare indietro. Ciò che conta non è la complessità del labirinto, ma quanto sia lungo e forte il filo dell’amor. Chi ne tiene l’altro capo. Magari l’Amore stesso, quello che “move il sole e le altre stelle”.
di Don Mauro Leonardi (Prete e Scrittore) per il Sussidiario
Link all’articolo : http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2014/10/28/CIO-CHE-INFERNO-NON-E-D-Avenia-il-Mistero-del-sorriso-di-don-Pino-Puglisi/547833/