Sarà una sorta di deformazione professionale legata alla cura di questa rubrica, ma talvolta mi pare che basti la piccola porzione ecclesiale di Rete che frequento quotidianamente a restituirmi l’immagine di quel «volto pluriforme della Chiesa» della cui bellezza Giovanni Paolo II diceva di avere goduto grazie al Grande Giubileo.
Negli ultimi giorni ho potuto distinguere, in particolare, tre futuri beati: Chiara Lubich, monsignor Tonino Bello e Benedetto Daswa.
Di due di loro sapevo già più che qualcosa: non si può fare il mestiere che faccio da trent’anni senza essersi ripetutamente incontrati con la fondatrice del Movimento dei Focolari, per la quale si è aperta ieri la causa di beatificazione (http://tinyurl.com/ntw8kvn), e con il vescovo di Molfetta e la sua «Chiesa del grembiule», la cui causa è già approdata in Vaticano (http://tinyurl.com/n2kd2dt).
Nulla ho saputo invece del catechista sudafricano, padre di numerosa famiglia, linciato nel 1990 per la sua concreta resistenza a pratiche di stregoneria che avrebbero generato ingiustizia, fino a che la sua beatificazione non è stata approvata dal Papa (http://tinyurl.com/oswcrsf).
C’è un aspetto che mi piace sottolineare, a partire dal loro casuale accostamento nelle ultime cronache.
Quello dei tre la cui causa è già terminata, cioè Daswa, non solo è quello morto più giovane (44 anni), ma è anche quello il cui ministero è stato il meno importante, se misurato con il metro degli uomini. Tanto che di lui, in vita, la comunità dei suoi fratelli in Cristo ha saputo quasi nulla, a confronto di monsignor Bello e di Lubich.
Il martirio di Benedetto, riconosciuto sin dai funerali, lo ha reso da “ultimo” a “primo”: primo a entrare nella vita eterna, e anche primo a salire, come si dice, agli onori dell’altare. E di certo né Chiara, né Tonino ne saranno gelosi.
di Guido Mocellin per Avvenire