Per strano che possa sembrare, la conoscenza della vera forma della croce di San Damiano, la raffigurazione del crocifisso più riprodotta nel mondo, è una scoperta recente. Come chiarì infatti una ricerca di Servus Gieben, fino a tutto il XIX secolo quel crocifisso, di cui molti parlavano e scrivevano, era in realtà ignoto ai più.
La testimonianza più antica in proposito narra che a Francesco, ancora agli inizi del suo percorso di conversione, mentre un giorno passava «vicino alla chiesa di San Damiano, gli fu detto in spirito di entrarvi a pregare. Andatoci, prese a fare orazione fervidamente davanti a un’immagine del crocifisso, che gli parlò con pietà e benevolenza: “Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va’ dunque e restaurala per me”». Tremante e stupefatto, rispose: «Lo farò volentieri, Signore». Egli, però, aveva inteso che si trattasse di quella chiesa che, per la sua antichità, minacciava prossima rovina. Per quelle parole fu colmato di tanta gioia e inondato da tanta luce, che egli sentì nell’anima «ch’era stato veramente il Cristo crocifisso a parlare con lui» (Leggenda dei tre compagni, numero 13).
La chiesa di San Damiano sarà poi abitata da Chiara e dalle sue sorelle. Tra il 1257 e il 1260, però, le monache si trasferirono nel luogo in cui riposavano le spoglie mortali della loro madre, dove si stava costruendo una nuova basilica in suo onore (Chiara era stata canonizzata nel 1255 da Alessandro IV). Nell’abbandonare San Damiano, non rinunciarono a portare con loro quel crocifisso davanti al quale avevano pregato per lunghi anni: la sua accessibilità finì così per farsi difficile, o forse coloro che si peritarono di riprodurre la croce di san Damiano lo fecero senza averne una conoscenza diretta; resta il fatto che le sue raffigurazioni — fino almeno al disegno di Juste de St. Fleury, realizzato nel 1882 e pubblicato nel 1885 — non risultano affatto conformi all’originale.
Tuttavia, quella lunga parentesi durante la quale è stato occultato agli occhi del pubblico ha finito per ingenerare in alcuni l’idea che quello attualmente conosciuto e venerato possa anche non essere lo stesso crocifisso di cui parlano le fonti. Alcune testimonianze consentono tuttavia di sciogliere ogni dubbio.
Due le traggo dal volume delle Fonti clariane, vera summa delle testimonianze medievali su santa Chiara d’Assisi (Porziuncola, 2013, a cura di Giovanni Boccali). La prima notizia si rintraccia nel manoscritto assisano 344, un codice della seconda metà del XIV secolo, scritto in parte da fra Giovanni Ioli, il quale fu bibliotecario nel Sacro convento di Assisi. Nella prima parte esso contiene il Tractatus di fra Francesco Bartoli sull’indulgenza della Porziuncola, quindi registra alcune notizie su indulgenze e reliquie connesse alla chiesa di san Damiano. Proprio tra quest’ultime si annota (foglio 63ra) che alcune teche, in precedenza custodite a San Damiano, erano al momento «conservate onoratamente con le sacre reliquie in S. Chiara d’Assisi, insieme con il crocifisso che parlò al beato Francesco nella chiesa di S. Damiano» (Fonti clariane, numero 2124).
La seconda testimonianza si trova in un codice miniato della seconda metà del XV secolo contenente la Legenda maior di Bonaventura in medio alto tedesco: testo e miniature sono attribuite alla clarissa Sibilla da Bondorf che, nella seconda metà del Quattrocento e all’inizio del secolo seguente, fu attiva come miniaturista e copista nei monasteri di Friburgo e di Strasburgo. Dopo la sua morte, un’anonima clarissa inserì nello stesso codice alcune notizie: tra queste la testimonianza di Corrado da Bondorf, secondo il quale il crocifisso che aveva parlato a san Francesco era ancora «custodito con grande riverenza nel monastero in cui riposa fisicamente la nostra beatissima madre santa Chiara. Esso è dipinto su legno, e non è un’immagine intagliata; è piatto e non sollevato. E quando Cristo dall’immagine parlò con lui, dicendo per tre volte “Francesco, va’, riparami la mia casa che ora sta crollando”, allora il capo si sollevò dal dipinto, così come sono normalmente sollevati i crocifissi intagliati. Così ancora oggi, in questi giorni, il volto è sollevato dal dipinto. E questo lo ha visto il venerabile, dottissimo dottore e reverendo padre custode del lago di Costanza, allora lettore a Strasburgo, fra Corrado da Bondorf, e disse che si trattava di un dipinto brutto, vecchio e sbiadito, ma il volto era grazioso e venerando. E questo lo aveva visto la vigilia della nostra madre santa Chiara [10 agosto], quando si contava dopo la nascita di Cristo l’anno 1473» (Fonti clariane, numero 2161-2162).
In ogni caso, la più antica attestazione della premura con cui quel crocifisso fu custodito dalle monache viene da un sermone di san Bonaventura: il 57, che fino a ora si conosceva nelle edizioni curate dai padri di Quaracchi (1901) e dal padre Jacques Guy Bougerol (Paris 1993), basate sul codice Troyes, Médiatheque (ms. 951). Qualche mese fa Aleksander Horowski ha reso noto (cfr. Collectanea Franciscana 84 [2014], pagina 395) un passo dello stesso sermone nella redazione trasmessa dal codice Berlin, Staatsbibliothek, Theol. Lat. Octavo 31. Mentre nella redazione di Troyes si dice che il Cristo dalla croce parlò a Francesco non come a un estraneo, ma come a un amico speciale, secondo quanto veniva riferito dalle sorelle di San Damiano (ut servatur a sororibus Sancti Damiani), nella redazione di Berlino — trascritta da un ascoltatore diverso — si dice che il Cristo parlò a lui non in maniera ordinaria, cioè attraverso una locuzione interiore (per internam inspirationem), ma del tutto particolare, poiché a chiedergli con voce sensibile di riparare la chiesa fu quel crocifisso che veniva conservato dalle monache di San Damiano (quem adhuc tenent moniales Sancti Damiani).
di Felice Accrocca per L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2015.