Non si può non restare quanto meno sorpresi davanti alle affermazioni contenute nella relazione annuale del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, là dove egli parla, fra l’altro, del ruolo della Chiesa e del suo atteggiamento nei confronti della criminalità organizzata.
«Sono convinto – ha detto il magistrato – che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie. E che grande responsabilità per i silenzi sia della Chiesa. Viene ammazzato don Diana, poi don Puglisi: reazioni zero. Siamo dovuti arrivare al 2009 per iniziare a parlarne timidamente. Ora finalmente si è mossa qualcosa con Papa Francesco ma per decenni la Chiesa avrebbe potuto fare ma non ha fatto nulla.
Papa Francesco ne parla apertamente ma sono dovuti passare altri 6 anni per la scomunica dei mafiosi». Si stenta a credere che una persona mediamente informata – a maggior ragione un magistrato rispettabilissimo investito di una delicatissima funzione e quindi di una particolare responsabilità – abbia potuto fornire, in un’occasione pubblica, una simile ricostruzione del rapporto tra la Chiesa e la mafia nel periodo storico che precede l’attuale pontificato.
Vero è che, contraddittoriamente, lo stesso Roberti menziona di passaggio la denuncia di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi di Agrigento, ma è un accenno volto a sottolineare il silenzio che, a suo avviso, ha caratterizzato l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della criminalità organizzata.
Siamo di fronte, semplicemente, a un esempio (grave) di disinformazione. Roberti non sa quello che avrebbe potuto apprendere leggendo uno qualunque dei libri o dei saggi dedicati all’argomento, e cioè che già a partire dalla seconda metà del secolo scorso, con l’emergere, nella coscienza civile, della gravità del fenomeno mafioso, la Chiesa siciliana lo ha denunciato con fermezza e senza ambiguità.
Quando si scorrono i comunicati della Conferenza episcopale siciliana (Cesi), si nota – osserva uno dei più attenti e documentati studiosi del problema – «la frequenza con cui a partire dal 1973 i vescovi siciliani, sotto la presidenza dell’Arcivescovo Salvatore Pappalardo, segnalarono senza eufemismi il male della mafia nella realtà siciliana» (F. M. Stabile, Chiesa e mafia, in U. Santino [a cura di], L’antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989).
È troppo nota, per doverla qui ricordare minuziosamente, l’opera di denunzia svolta dal suddetto cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, negli anni ottanta del secolo scorso. Può essere utile, invece, ricordare il dato, riportato da un autore assolutamente ‘laico’, e che riguarda i pastori di altre diocesi, secondo cui «nel gennaio 1990 (…) i vescovi di Agrigento e di Catania, fino ad allora prudenti e discreti, dichiararono senza mezzi termini che ‘la mafia è segno del potere di Satana’ e che ‘il mafioso è scomunicato’» (D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, 1992, p.60). E così è stato anche nel nuovo millennio. Da parte dei vescovi siciliani (e non solo: anche quelli delle altre regioni del Sud in tutti questi anni hanno parlato) le denunzie sono state chiare e ripetute.
Si potrebbe obiettare che in passato, prima degli anni Settanta, il silenzio c’era stato. È nota l’accusa, spesso rivolta nei confronti del cardinaleRuffini, arcivescovo di Palermo negli anni del dopoguerra, di aver misconosciuto, fino a negarla, l’esistenza stessa della mafia. Ma siamo in anni in cui erano in molti – anche tra personalità con responsabilità istituzionali – a non aver compreso, allora, la pericolosità del fenomeno mafioso. È impressionante che ancora nel 1955 il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, in occasione della morte di Calogero Vizzini, considerato il capo indiscusso della mafia siciliana, potesse scrivere in una rivista: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (…) ha affiancato addirittura le forze dell’ordine (…). Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività» (Cit. in P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, 1992, pp.5960). Come rimproverare al cardinale Ruffini, che non era un magistrato, di avere sottovalutato il problema?
Roberti non sa neppure, evidentemente, che già da tempo, nell’autunno del 1982, la Conferenza episcopale siciliana ha comminato la scomunica per gli autori di crimini di stampo mafioso (cfr. D. Mogavero, ‘Giornale di Sicilia’ del 9 giugno 1989), che dunque non è una novità. Questa informazione lo avrebbe forse rassicurato sul fatto che le denunzie sono state fatte, e come, ben prima di papa Francesco. Che le ha certo ribadite e confermate, ma partendo dalle prese di posizione dei suoi predecessori e dei vescovi meridionali. Ma non sono stati solo i vescovi.
Nel 1993, al terzo convegno delle chiese di Sicilia, fu invitato a parlare il procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, che della lotta alla mafia in quel momento era il simbolo vivente. Per applaudire il suo discorso, tutta l’assemblea (duemila delegati provenienti da tutte le diocesi della Sicilia) si alzò in piedi, – «come davanti al Vangelo», commentò con un sorriso il cardinale Pappalardo. E in quello stesso 1993 fu un sacerdote qualsiasi, non un ‘prete-antimafia’, don Pino Puglisi, a testimoniare con la sua vita la radicale contrapposizione tra il Vangelo predicato dalla Chiesa e la mafia. Una testimonianza che la Chiesa stessa ha voluto solennemente consacrare quando il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad una folla di circa centomila fedeli, don Puglisi è stato riconosciuto martire della fede e proclamato beato.
No, non sono le denunzie che, ‘per decenni’, sono mancate. Piuttosto qualcos’altro, forse, che la sorprendente presa di posizione di Roberti rischia di far perdere di vista, sollevando un polverone su un falso obiettivo. Quella che in parte è mancata è una pastorale capillare capace di fare cultura e di trasformare la mentalità e il modo di sentire della gente comune. Perché le denunzie non bastano. Quelle riguardano il ‘piano nobile’ della vita della Chiesa. Come i convegni, le lettere e i piani pastorali, le dichiarazioni ufficiali. Ma c’è il ‘piano terra’, costituito dalla vita reale delle parrocchie, dove spesso prevale la routine di un ritualismo devozionale: messe, con omelie spesso ininfluenti, battesimi, prime comunioni, matrimoni, funerali. La sfera del ‘sacro’ si pone allora come un momento a se stante, una parentesi, rispetto alle scelte della vita di ogni giorno, che finisce per essere dominata da logiche estranee al Vangelo. Basta guardare alla cultura diffusa e agli stili di vita della nostra società, dove pure la grande maggioranza ancora si riconosce, in un modo o nell’altro, nel cattolicesimo, per rendersi conto che questa scarsa incisività della fede sulla cultura non riguarda solo il Sud e non si rileva solo nei confronti della mafia. È questo, non le denunzie, il vero problema che le comunità cristiane oggi devono affrontare e risolvere. Gli ‘Orientamenti pastorali’ della Cei per il decennio 2010-2020 sono centrati sul tema dell’educazione, non solo alla fede, ma a una più autentica umanità. Possa questa sfida essere vinta, rinnovando profondamente la pastorale del ‘piano terra’ e rendendola capace di trasformare il modo di pensare e di vivere delle persone fuori dal tempio. Anche la mafia, allora, diventerà solo un ricordo. Fonte: Avvenire