Ali è un ragazzo di 26 anni, sudanese, giunto in Italia vivo per miracolo. È uno dei tanti arrivati dal mare.
Come è iniziato il tuo viaggio per l’Italia?
Scusa se insisto ma promettimi di usare un altro nome per l’intervista. Mia madre non sa nulla di quello che ho dovuto passare per arrivare qui. Le ho solo detto che è andato tutto bene, che il viaggio è stato tranquillo. Lei non voleva che io partissi e così ho preferito rassicurarla: non deve sapere che suo figlio ha conosciuto da vicino la morte.
Il mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato in un tir: eravamo in 105 stipati uno vicino all’altro, ognuno con il suo posto pagato 100 dollari per attraversare il deserto fino in Libia. Il viaggio è durato una settimana, il cibo era poco e l’acqua meno. Ci facevano sgranchire le gambe una volta al giorno per cinque minuti.
Una volta arrivato in Libia cosa hai fatto?
Sono stato due mesi a Tripoli prima di poter partire per l’Italia. Non sapevo bene come fare a contattare chi organizza i viaggi, ma ci ho messo poco a capire a chi mi dovevo rivolgere per lasciare la Libia. Ho incontrato un gruppetto di sudanesi che mi hanno messo in contatto con un tizio, anch’egli sudanese. Poche parole, niente cerimonie: 1200 dollari è il prezzo di un posto su un gommone per un viaggio che – mi dicevano – “dura al massimo 12 ore: in questo periodo non c’è da preoccuparsi, il mare è calmo e non c’è vento”.
Il 1 agosto, un giorno prima della partenza, sono stato avvertito che l’indomani all’una di notte mi sarei dovuto trovare in una spiaggetta nascosta non molto lontana dal porto.
Oltre a me quella notte c’erano altre 16 persone ad aspettare. Eravamo tutti giovani uomini sudanesi tranne un ragazzo e una coppia di coniugi ghanesi. Il marito si era offerto di guidare il gommone e per questo non aveva pagato la sua quota.
Sapevamo che il viaggio doveva durare un giorno e avevamo con noi un panino a testa, un pezzo di formaggio e una bottiglia d’acqua per tutti.
Ci avevano detto di non portare nulla perché sul gommone non c’era spazio per i bagagli. In realtà non c’era spazio nemmeno per diciassette persone, eravamo tutti molto stretti uno vicino all’altro.
Comunque pensavo che dodici ore le avrei sopportate abbastanza facilmente.
Come è andata? Sei riuscito a sopportare queste dodici ore di viaggio?
Ci abbiamo messo sei giorni ad arrivare. Cinque di noi non ce l’hanno fatta.
Un vero incubo: dopo 25 ore di navigazione entrava acqua nel gommone e avevamo finito cibo e acqua da bere.
Abbiamo avuto un barlume di speranza quando è comparsa all’orizzonte un’enorme nave bianca. Ci siamo avvicinati per chiedere soccorso. Dalla nave ci dicevano di allontanarci, che non ci avrebbero fatto salire. Vedevamo la nave allontanarsi insieme all’unica possibilità di salvarci tutti.
Dopo altri due giorni così ormai eravamo esausti, pensavo di morire, che non ce l’avrei fatta e che era stato tutto inutile.
Durante la notte tra il quarto e il quinto giorno quando l’acqua ormai ci arrivava al collo, abbiamo deciso di tentare il tutto per tutto, tanto ormai non avevamo più nulla da perdere.
E così abbiamo staccato il motore dal gommone per alleggerirne il peso e inoltre abbiamo buttato in acqua le taniche di benzina che avevamo a bordo. Quattro di noi hanno deciso di mantenersi a galla con le taniche vuote, abbondando per sempre l’imbarcazione che era inservibile. Io e gli altri non ce la siamo sentiti di seguirli e così siamo rimasti tutti vicini uno sopra l’altro appoggiati alla parte anteriore del gommone.
I quattro che avevano scelto di affidarsi alle taniche vuote, spinti dalla corrente, non sarebbero mai arrivati in Italia.
Come siete giunti in Italia?
Al sesto giorno eravamo tutti consapevoli che non avremmo visto la notte. Un’onda più grande delle altre ci ha buttati tutti sott’acqua per circa venti interminabili secondi prima di riemergere. È stato terribile. Siamo stati travolti dall’onda in tredici ma siamo riemersi solo in dodici: la moglie del ghanese non ce l’aveva fatta. Il marito non aveva il coraggio di guardare. Ormai non c’era più niente da cercare o da raggiungere, anche le nostre vite erano perdute.
Dopo qualche minuto abbiamo avvistato una nave ma ormai eravamo sicuri che neanche stavolta ci avrebbero aiutato. A questo punto credo di aver penso i sensi.
Mi sono risvegliato su una barca con delle persone che mi davano da bere e mi tenevano la fronte.
Fa male ricordare?
Certo fa male. Ma quello che fa più male è sentirsi chiamare clandestino e sentire le notizie al telegiornale di quelli che muoiono. Nessuno dice che siamo disperati, che siamo disposti a morire pur di lasciare i nostri paesi distrutti dalle guerre. Nessuno immagina cosa significa arrivare vivi in Italia. Nessuno sa quanta gente specula sulla nostra vita.
di Donatella Parisi