I cristiani del Medio oriente si trovano ad affrontare difficoltà di un livello che va dal “grave” al “meno grave”. Vale a dire che in quella zona del mondo al momento nessun fedele può affermare di vivere in condizioni di relativa tranquillità. È quanto afferma il patriarca di Gerusalemme dei Latini, monsignor Fouad Twal, intervistato dal Catholic News Service. Mentre definisce “brutta” la condizione dei palestinesi in Cisgiordania, il presule sostiene che la loro situazione è migliore rispetto alle sfide che sono costretti ad affrontare i cristiani in Siria e in Iraq, soprattutto quelli che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni e i propri villaggi a causa delle violenze e delle persecuzioni degli estremisti appartenenti allo Stato islamico (Is).Il patriarca Twal ha ribadito ancora una volta quanto sia importante e urgente la fine delle ostilità in tutta la Terra Santa e in Medio Oriente. «Condanniamo — ha detto — coloro che vendono le armi e che contribuiscono a mantenere viva la guerra in Siria. È un peccato. Non avevamo mai raggiunto questo livello di violenza. Noi preghiamo, speriamo, piangiamo. In tutto il Medio oriente non c’è una vita normale».
Sebbene riservi la definizione di “Chiesa del calvario” alla comunità cattolica della Terra santa, il patriarca ritiene che nell’intero Medio oriente si rischia di gettare la popolazione cristiana nelle medesime condizioni, dato il massiccio spostamento di fedeli dai Paesi d’origine a causa delle violenze. Twal ha ricordato che la Chiesa cattolica in Giordania contava fino a qualche tempo fa circa duecentomila cristiani. Negli ultimi tempi essa ha assorbito circa settemila rifugiati provenienti in particolare dalla Siria e dall’Iraq. Il patriarca si è detto “afflitto” dalle umiliazioni che sono costretti ad affrontare i rifugiati in Giordania, che prima vivevano una vita tranquilla, andavano a lavorare guadagnando un buon salario per poter vivere senza dipendere dagli altri e potevano mandare i loro figli a scuola. «Nel complesso — ha spiegato — la situazione dei rifugiati sta peggiorando, la gente si sente avvilita perché si rende conto che non sarà più in grado di tornare nelle loro case e nei loro Paesi in Iraq o in Siria. Non c’è speranza, non c’è vita, non c’è speranza di una fine» delle sofferenze.
Mentre le scuole cristiane, le parrocchie giordane e le agenzie caritative, come Caritas Giordania, hanno fatto del loro meglio per prendersi cura dei profughi, adesso sono a corto di risorse e hanno difficoltà a mantenere gli attuali livelli di aiuti. «Adesso, sono tutti stanchi. I parroci sono stanchi, i donatori sono stanchi, la gente è stanca e ha perso il proprio entusiasmo. All’inizio — ha proseguito il presule — erano felici di aiutare. Ma adesso si guarda il futuro e non si vede una fine. La Caritas non ha le risorse per assicurare tre pasti al giorno per ogni persona».
Qualche elemento positivo c’è, tuttavia. Il patriarca ha espresso la propria soddisfazione per la liberazione del padre francescano Dhiya Aziz, che ha trascorso una settimana di prigionia. «È stato rapito dopo aver celebrato messa nel villaggio siriano di Yacoubieh, nella Valle dell’Oronte, della Custodia francescana di Terra santa. Padre Aziz — ha ricordato Twal — è stato il secondo francescano rapito nella valle dal 2014, e il settimo religioso in Siria. Altri sei sacerdoti sono ancora nelle mani dei rapitori e attendiamo che vengano rilasciati».
La priorità è dunque recuperare la speranza. Nonostante il grido di dolore, in numerose occasioni il patriarca di Gerusalemme dei Latini ha ribadito che «come cristiani siamo chiamati, al cuore di questa regione del Medio oriente scosso dalle guerre e insanguinato dalla violenza, a essere segni di contraddizione, segni di speranza malgrado tutto. Il nostro futuro in questa regione e in questo mondo è incerto e persino più oscuro, ma noi non abbiamo paura, Cristo ci ha preceduto ed è con noi».
L’Osservatore Romano