Un lungo speciale nel Magazine domenicale affronta la drammatica questione. Nell’arco di un secolo (1910-2010) il numero dei cristiani in paesi come l’Egitto, Israele, Palestina e Giordania è passato dal 14 al 4 per cento della popolazione.
I cristiani in Medio Oriente stanno «male» o «meno male», dichiarava nei giorni scorsi il Patriarca latino Fouad Twal di Gerusalemme, aggiungendo però che la condizione dei palestinesi in Cisgiordania sia senza dubbio ancora migliore rispetto alle sfide affrontate dai cristiani in Siria e in Iraq, soprattutto quelli costretti ad abbandonare le loro case di fronte all’avanzata dei militanti dello Stato Islamico.
«Assisteremo alla fine del cristianesimo in Medio Oriente?» si chiede allora il New York Times nel suo speciale nel Magazine di domenica 26 luglio dal titolo «L’ombra della morte».
A partire dalla storia di Diyaa e Rana, due coniugi di Qaraqosh, la più grande cittadina cristiana nella piana di Ninive in Iraq – 1.500 miglia quadrate incuneate fra il territorio curdo e quello arabo, fino all’estate scorsa quasi il granaio dell’Iraq per le sue ampie coltivazioni di cereali, ma anche fiorenti allevamenti di bestiame e pollame, il centro vivace per numerosi bar e attività commerciali– il racconto affonda le radici agli inizi della fede cristiana in quella terra: sullo sfondo delle testimonianze il terrore che accompagna il dilagare delle milizie dell’ISIS, il prosciugamento dei pozzi (in zone dove le temperature raggiungono i 110°F, più di 43°C), le decapitazioni di massa, la fuga delle popolazioni verso Erbil, la capitale della zona curda, 50 miglia più a nord.
La maggior parte dei cristiani d’Iraq si definiscono assiri, caldei o siriaci, nomi diversi per indicare una comune radice etnica che si è sviluppata nei regni mesopotamici fra il Tigri e l’Eufrate migliaia di anni prima di Cristo. Secondo lo storico Eusebio il cristianesimo sarebbe arrivato là durante il I secolo, ma la tradizione vuole che Tommaso, uno degli Apostoli, avrebbe inviato Taddeo, uno dei primi convertiti dall’ebraismo, a predicare il Vangelo in Mesopotamia.
Il cristianesimo è cresciuto in pacifica coabitazione con altre tradizioni religiose, quali Giudaismo, Zoroastrismo e il monoteismo di drusi, yazidi e mandei: comunità in conflitto fra loro divise da differenze dottrinali che persistono ancora oggi. Quando le prime truppe islamiche arrivarono dalla penisola arabica nel corso del VII secolo, il passaggio al dominio islamico è avvenuto senza traumi: i cristiani d’Oriente godevano di protezione, è vero che dovevano pagare la jizya (la tassa per i non islamici), ma a loro era comunque permesso ciò che altrimenti era vietato, come mangiare carne di maiale o bere alcolici e i governanti musulmani tendevano pure ad essere più tolleranti nei confronti delle minoranze rispetto ai loro omologhi cristiani e per circa 1500 anni le diverse religioni hanno prosperato l’una a fianco dell’altra.
Cento anni fa, due fatti hanno dato avvio al più grande periodo di violenze contro i cristiani: la caduta dell’Impero ottomano e la Prima Guerra Mondiale. Il genocidio attuato dai Giovani Turchi in nome del nazionalismo (non della religione!) ha lasciato sul campo almeno due milioni di armeni, assiri e greci, perlopiù cristiani. Tra i sopravvissuti, i più istruiti sono andati verso Occidente, altri si sono stabiliti in Iraq o in Siria, protetti dai dittatori militari.
Nell’arco di un secolo (1910-2010) il numero dei cristiani in Medio Oriente, in paesi come l’Egitto, Israele, Palestina e Giordania, ha continuato a diminuire: se all’inizio i cristiani rappresentavano il 14% della popolazione, ora sono al 4%. Anche in Libano, l’unico paese della regione in cui i cristiani detengono un significativo potere, il loro numero si è ridotto nel corso dell’ultimo secolo, dal 78 al 34%. Le ragioni di un declino sono da annoverarsi nella bassa natalità, clima politicamente ostile e crisi economica, ma anche la paura fa il suo gioco e la contemporanea ascesa di gruppi estremisti o la percezione che le loro comunità stiano ormai sparendo, inducono le persone ad abbandonare la loro terra.
E’ da più di un decennio che gli estremisti hanno preso di mira cristiani e altre minoranze, spesso visti come emblema del mondo occidentale: in Iraq l’invasione americana ha spinto centinaia di migliaia di persone a fuggire. «Dal 2003, abbiamo perso preti, vescovi e più di 60 chiese sono state bombardate in Iraq», dichiara Bashar Warda, arcivescovo cattolico caldeo di Erbil. Con la caduta di Saddam Hussein i cristiani si sono ridotti a meno di 500 mila unità (nel 2003 erano più di un milione e mezzo).
La primavera araba non ha fatto che peggiorare le cose. Caduti dittatori come Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia, l’atavica protezione delle minoranze si è conclusa e oggi ISIS sta cercando di sradicare i cristiani e le altre minoranze capovolgendo con la forza delle armi l’antica storia della regione per legittimare la sua impresa millenaria, utilizzando i media per avvertire la popolazione.
Per la prima volta il futuro del cristianesimo nella regione è quanto mai incerto. «Per quanto tempo potremo fuggire prima che noi e altre minoranze diventeremo solo un capitolo all’interno di un libro di storia?», dice Nuri Kino, giornalista e fondatore di un gruppo di pressione per la richiesta di azione da parte dell’Occidente. Secondo uno studio Pew, i cristiani sono ora di fronte alla persecuzione religiosa più che in qualsiasi altro momento della storia. «L’ISIS ha solo acceso i riflettori su un problema di sopravvivenza», dice Anna Eshoo, parlamentare democratica della California, i cui genitori provenivano da quella regione e attivamente impegnata per la difesa dei cristiani d’Oriente.
Dall’inizio della guerra civile scoppiata in Siria nel 2011, Assad ha permesso ai cristiani di lasciare il paese: quasi un terzo dei cristiani, circa 600 mila, non hanno avuto altra scelta se non quella di fuggire.
Emblematica la vicenda di Bassam: suo fratello Yussef si è trasferito a Chicago due anni fa, non ha ancora un lavoro, ma la moglie è impiegata da Walmart e potrebbero aiutarlo. «Cosa potrei fare qui? Ho quattro figli, non posso lasciarli a morire».
Questa primavera il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito per affrontare la situazione delle minoranze religiose in Iraq. «Se prestiamo attenzione ai diritti delle minoranze solo dopo che è iniziato il drammatico genocidio, abbiamo fallito in partenza» dichiarava Zeid Ra’ad al-Hussein, alto commissario per i diritti umani.
E’ stato quasi impossibile, afferma il NYT, per due presidenti degli Stati Uniti – Bush, evangelico conservatore, e Obama, liberale progressista – affrontare esplicitamente la difficile situazione dei cristiani per timore dello scontro di civiltà. «Una delle ombre dell’amministrazione Bush è stata l’incapacità di cimentarsi con questo problema, diretta conseguenza dell’invasione», dice Timothy Shah, direttore del Freedom Project della Georgetown University.
Più di recente, la Casa Bianca è stata criticata per rifuggire quasi lo stesso termine «cristiano»: quando quest’inverno l’ISIS ha massacrato i copti egiziani in Libia, il Dipartimento di Stato ha fatto riferimento alle vittime semplicemente come «cittadini egiziani». Daniel Philpott, docente di scienze politiche all’Università di Notre Dame: «Quando si tace sul fatto che l’ISIS abbia motivazioni religiose né che prenda di mira minoranze religiose, la prudenza dell’ attuale amministrazione sembra eccessiva».
Anche se l’ISIS fosse sconfitto, il destino delle minoranze religiose in Siria e in Iraq rimarrebbe desolante: «Abitiamo qui come gruppo etnico da 6000 anni e come cristiani da 1700 anni – dice Srood Maqdasy, membro del Parlamento curdo – abbiamo la nostra cultura, la lingua e la tradizione. Se vivessimo all’interno di altre comunità, tutto questo scomparirebbe nel giro di due generazioni».
La soluzione pratica, secondo alcuni, sarebbe quella di costituire un rifugio sicuro sulla piana di Ninive, magari gestito dall’UNHCR come soluzione permanente, ipotizza Nuri Kino o una soluzione tipo no-fly zone, anche se è tutto da verificare il sostegno internazionale.
Per altri la convivenza tra fedi diverse è finita: «Non c’è più il tempo di aspettare le soluzioni», afferma padre Emanuel Youkhana, alla guida di Christian Aid Program a nord dell’Iraq. L’Iraq è un matrimonio forzato tra sunniti, sciiti, curdi e cristiani, e non è riuscito e io, come sacerdote, preferisco il divorzio».
Di Maria Teresa Pontara Pederiva per Vatican Insider (La Stampa)