Gran parte delle discussioni a proposito del prossimo Sinodo, derivano dall’uso dell’espressione “annullamento” matrimoniale invece della corretta perifrasi “dichiarazione di nullità”. “Annullare” significa far tornare nel nulla e, rispetto al matrimonio, questa operazione per un cattolico non è possibile dal momento che chi dichiara indissolubile il matrimonio è lo stesso Cristo (che a propria volta si rifà allo Jahvè della Genesi). Tutt’altra cosa invece è “dichiarare nullo” e i due Motu Propri emessi ieri da Papa Francesco – e che entreranno in vigore il prossimo 8 dicembre – si riferiscono alla “dichiarazione di nullità”: cioè, in concreto, alla celerità, gratuità e accessibilità di questa operazione. “Dichiarare nullo” significa porre in atto un processo per cui la Chiesa rivede quanto è avvenuto e rinviene dei motivi che consentono di dire che il matrimonio non c’è mai stato: non è “annullato” ma viene “dichiarato nullo”, cioè inesistente. Non c’è mai stato. Quando ho deciso di sposarmi, per esempio, non sapevo cosa facevo, oppure non intendevo ciò che s’intende per matrimonio, non ero libero veramente e consapevole, e così via: si indaga, appunto, sulle cause di nullità. Per questo un processo di nullità si chiama così: perché indaga con attenzione se il matrimonio in oggetto era o meno esistente. Il fine dei Motu Propri “Mitis Iudex Dominus Iesus” e “Mitis et misericors Iesus” è pertanto evitare che “il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio”. Detto in altre parole, io – o noi come coppia – abbiamo la convinzione che il matrimonio che abbiamo formalmente contratto, non sia mai esistito ma la Chiesa, al cui giudizio teniamo, ritarda nel far coincidere la nostra coscienza con la vita. Il Papa quindi ha cercato non una scorciatoia per saltare l’indissolubilità del matrimonio – che anzi viene diverse volte ribadita nei due documenti – ma degli snellimenti procedurali che consentano, in modo veloce e allo stesso tempo serio, di superare lo iato esistente in troppi cristiani tra coscienza e giudizio ecclesiale. In sintesi giornalistica, direi che tale tentativo è fatto con tre passi: il primo, che è sufficiente una sentenza a favore della nullità e non c’è l’assoluto bisogno di due. Rimane salvo il diritto di appello ma non c’è più l’obbligo di fare l’appello: dall’ 8 dicembre 2015, la parte che si sente gravata dal giudizio – tecnicamente si chiama “difensore del vincolo” – può ricorrere, ma se c’è accordo tra le parti, basta una sola sentenza. Il secondo passo è l’aumento della centralità del vescovo negli aspetti giudiziali (per esempio in certi casi l’ordinario può decidere una forma ancora più breve oppure che decida non un collegio ma un giudice unico). Il terzo è l’auspicio della totale gratuità. Papa Francesco compie tutto ciò nel solco dell’azione iniziata dai suoi predecessori, e mosso dalla preoccupazione per la salvezza delle anime. Perché stare a lungo in dubbio, appesantiti dal credere in coscienza qualcosa che però non è accettata pubblicamente nella propria Chiesa pesa, pesa terribilmente. E spinge ad allontanarsi da Dio, dalla Chiesa e dall’uomo (e a fare tante sciocchezze).
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlSussidiario.net