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Se Sant’Agostino, con la sua profondità, ci insegna a vivere l’amore nel matrimonio

Estratti dalle opere “De nuptiis et concupiscentiâ” e “De bono coniugali” di Sant’Agostino d’Ippona, Padre e Dottore della Chiesa (354 – 430).

Matrimonio

Ciascun uomo è parte del genere umano; la sua natura è qualcosa di sociale e anche la forza dell’amicizia è un grande bene che egli possiede come innato. Per questa ragione Dio volle dare origine a tutti gli uomini da un unico individuo, in modo che nella loro società fossero stretti non solo dall’appartenenza al medesimo genere, ma anche dal vincolo della parentela. Pertanto il primo naturale legame della società umana è quello fra uomo e donna.
E Dio non produsse neppure ciascuno dei due separatamente, congiungendoli poi come stranieri, ma creò l’una dall’altro, e il fianco dell’uomo, da cui la donna fu estratta e formata, sta ad indicare la forza della loro congiunzione. Fianco a fianco infatti si uniscono coloro che camminano insieme e che insieme guardano alla stessa meta. Conseguenza è che la società si continua nei figli che sono l’unico frutto onesto non del legame tra l’uomo e la donna, ma della relazione sessuale. Infatti anche senza un simile rapporto vi sarebbe potuta essere nei due sessi una forma di amichevole e fraterna congiunzione, fungendo l’uomo da guida e la donna da compagna.
 

Riguardo la fedeltà, il tradimento e il divorzio

Ciò che vogliamo dire ora, riferendoci a questa condizione di nascita e di morte che conosciamo e nella quale siamo stati creati, è che il connubio del maschio e della femmina è un bene. E tale unione è approvata a tal punto dalla divina Scrittura che non è consentito di passare a nuove nozze a una donna ripudiata dal marito, finché il marito vive, né è consentito di risposarsi all’uomo respinto dalla moglie, finché non sia morta quella che lo ha abbandonato.
[…] A ciò si aggiunge che mentre essi si rendono a vicenda il debito coniugale, anche quando esigono questo dovere in maniera piuttosto eccessiva e sregolata, sono tenuti comunque alla reciproca fedeltà. E a questa fedeltà l’Apostolo attribuisce un diritto tanto grande da chiamarla potestà, quando dice: “Non è la moglie che ha potestà sul proprio corpo, ma il marito; allo stesso modo non è il marito che ha potestà sul proprio corpo, ma la moglie” (1 Corinzi 7:4).
La violazione di questa fedeltà si dice adulterio, quando, o per impulso della propria libidine, o per accondiscendenza a quella altrui, si hanno rapporti con un’altra persona contrariamente al patto coniugale. Così si infrange la fedeltà, che anche nelle cose più basse e materiali è un grande bene dello spirito, e perciò è certo che essa dev’essere anteposta perfino alla conservazione fisica, sulla quale si fonda la nostra vita temporale. Un filo di paglia di fronte a un mucchio d’oro è praticamente un nulla; tuttavia la buona fede, quando viene osservata coscienziosamente, si tratti d’oro o di paglia, non sarà certo di minor valore perché è osservata in cosa di minor valore. Quando poi la lealtà viene impegnata per commettere un peccato, certo sorprende che si possa far ricorso lo stesso a questo termine; ma ad ogni modo, qualunque sia la natura di questa lealtà, se il peccato avviene anche contro di essa, è più grave. Si deve eccettuare solo il caso che essa sia trasgredita proprio per tornare alla buona fede autentica e legittima, cioè per correggere la perversione della volontà ed emendare il peccato.
[…] Se una donna che tradisce la fedeltà coniugale, è fedele all’amante, è in ogni caso una donna colpevole; ma se non lo è neppure all’amante, è peggiore. Però se essa si pente della colpa, e tornando alla castità coniugale scioglie l’accordo adulterino, mi sorprenderebbe se proprio l’amante la considerasse una traditrice.
 
[…] Mi sembrerebbe strano, poi, se dal fatto che è consentito ripudiare una moglie adultera si deducesse che, ripudiata quella, è pure consentito prenderne un’altra. A questo punto infatti la Sacra Scrittura presenta un difficile problema. L’Apostolo dice che per ordine del Signore la donna non deve abbandonare il marito, ma se lo abbandona non deve passare a nuove nozze, oppure deve riconciliarsi con lui (1 Corinzi 7:10-11). L’unico caso in cui può abbandonare il marito, sempre senza passare a nuove nozze, è che questi sia adultero; altrimenti, abbandonando un uomo che adultero non è, lo indurrebbe a diventarlo.
Probabilmente è possibile e giusto che la donna si riconcili con il marito, o sopportando, se essa non è capace di osservare la continenza, oppure aspettando che si sia emendato.
Come poi possa essere permesso all’uomo di risposarsi, dopo aver ripudiato una moglie adultera, io proprio non lo vedo, dal momento che alla donna che ha abbandonato un marito adultero ciò non è permesso. Se le cose stanno così, quel vincolo del matrimonio che unisce i coniugi ha una forza tale che, pur essendo stato stretto allo scopo di procreare, non può essere sciolto neppure per questo stesso scopo di procreare. Infatti un uomo potrebbe rimandare la moglie sterile e prenderne una da cui avere figli, e invece non è consentito; e ormai ai tempi nostri e secondo il costume romano non è consentito nemmeno avere più mogli in vita contemporaneamente. Eppure senz’altro, se l’uno o l’altra si risposasse di nuovo, abbandonato il coniuge adultero, potrebbero nascere diverse creature. Ma se ciò non è consentito, come sembra prescrivere la regola divina, a nessuno può certo sfuggire che cosa significa una così assoluta fermezza del vincolo coniugale. Io penso che in nessun modo esso potrebbe avere una forza così grande se, pur nella condizione umana di debolezza e mortalità, non assumesse il sigillo di un valore più alto: ma questo sigillo, anche quando gli uomini cercano di staccarsene o di scioglierlo, rimane incancellabile fino al loro castigo. Giacché non si abolisce l’unione nuziale neppure quando interviene il divorzio; di modo che i coniugi sono tra loro tali anche se separati, mentre commettono adulterio con quelli con i quali si uniscono anche dopo il ripudio, sia la donna con un uomo che un uomo con una donna.
 

L’indissolubilità del matrimonio

In verità, agli sposi cristiani non viene raccomandata soltanto la fecondità, il cui frutto sono i figli, né solo la pudicizia, il cui vincolo è la fedeltà, ma anche un certo sacramento del matrimonio, a motivo del quale l’Apostolo dice: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa” (Matteo 5:32).
Non c’è dubbio che la realtà di questo sacramento è che l’uomo e la donna, uniti in matrimonio, perseverino nell’unione per tutta la vita e che non sia lecita la separazione di un coniuge dall’altro.
Questo infatti si osserva tra Cristo e la Chiesa che vivendo l’uno unito all’altro non sono separati da alcun divorzio per tutta l’eternità. Tanto scrupolosa è l’osservanza di questo sacramento nella città del nostro Dio, sul suo monte santo, cioè nella Chiesa di Cristo, da parte di tutti gli sposi fedeli che senza dubbio sono membra di Cristo, che, sebbene la ragione per cui le donne prendono marito e gli uomini prendono moglie sia la procreazione dei figli, non è permesso abbandonare neppure la moglie sterile, per sposarne una feconda. Che se qualcuno lo facesse, non secondo la legge di questo secolo, dove servendosi del ripudio è permesso di contrarre senza crimine nuovi matrimoni con altre persone (cosa permessa agli Israeliti, secondo la testimonianza del Signore, anche dal santo Mosè a causa della durezza del loro cuore), secondo la legge del Vangelo sarebbe responsabile di adulterio. Lo stesso vale per la donna se si maritasse con un altro.
Tra persone viventi i diritti del matrimonio, una volta ratificati, sussistono a tal punto che coloro che si sono separati l’uno dall’altro rimangono più coniugi tra loro che nei confronti di quegli altri con cui si sono uniti. Se non rimanessero coniugi l’uno dell’altro, non sarebbero adulteri quando stanno con altri. Inoltre, solo alla morte dell’uomo, con il quale si era contratto un vero matrimonio, si potrà fare un vero matrimonio con colui al quale prima si era uniti in adulterio. Permane così tra loro, finché sono in vita, un certo legame coniugale, che non può essere rimosso né dalla separazione né dall’adulterio. Permane, però, in vista della punizione del crimine, non come un vincolo di un patto, come l’anima di un apostata che recede, per così dire, dall’unione sponsale con Cristo: anche quando ha perduto la fede, essa non perde il sacramento della fede, ricevuto con il lavacro della rigenerazione. Se l’avesse perduto nell’allontanarsi, senza dubbio le sarebbe restituito al ritorno. Ma chi si è allontanato lo possiede per accrescere la pena, non per meritare il premio.

Redazione Papaboys (Fonte www.veniteadme.org)

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