Silvia Avallone aspetta un figlio e scrive che la prima scoperta di una donna in gravidanza non riguarda la gravidanza ma se stessa. Si conosce di più, scopre di sé quello che nessuno sapeva, neanche lei. Dice che le mancano le parole. È strano per una scrittrice, ma non per una neo mamma scrittrice. Siamo bravi a trovare le parole per quello che nasce dalla nostra immaginazione ma poi cambia tutto quando dobbiamo parlare di noi stessi e della nostra vita. Forse, se avesse avuto una figlia quando ha scritto i suoi romanzi, avrebbe scritto meno crudamente, con più dolcezza, le vite dei suoi protagonisti. Ora potrei cadere nella critica alla Silvia scrittrice -perché di cos’altro dovrebbe scrivere un romanziere se non della propria vita? le “immaginazioni” non sono certo il materiale giusto per scrivere – ma non voglio farlo, voglio prendermi il bello di questa intervista, quello che condivido. Per esempio di aver creduto fino a ieri che i romanzi riparassero la vita, che fossero meglio della vita, e poi di aver scoperto che quando aggiungi la tua vita alle parole che leggi, scopri che le parole con cui hai raccontato hanno raccontato poco. Forse è vero che i romanzi non contengono la vita ma, questo penso io, questo vale solo per i giovani scrittori. Perché quando sei giovane hai le parole – credi di averle – ma non hai la vita. Poi però la vita arriva: arriva in un figlio, per esempio. E allora scrivere diventa segnare il tempo con le parole, capoversi come settimane e capitoli come mesi. Ed ecco che un libro c’entra con la vita e le parole bastano per mille vite. Silvia dice che anche lei chiama “ieri” il tempo in cui suo figlio non era nella sua vita. Forse non lo sa, ma comincia a fare quello che facciamo tutti: a contare i giorni da una nascita (e tutti i secoli dalla Sua nascita) non solo la propria, anche in quella dei figli. L’ho visto in molte donne. Mia mamma diceva: c’era già Chiara, Matteo non era ancora arrivato. Ogni donna conta il suo tempo in prima e dopo il proprio figlio, perché con l’arrivo della vita il tempo cambia e ha bisogno di essere contato di nuovo.
Forse, adesso che è madre, Silvia potrà diventare una grande scrittrice. Pare abbia capito che, anche se raccontiamo una vita immaginata, è sempre la nostra vita che raccontiamo in un racconto. Ecco perché adesso Silvia trova difficoltà a ritrovarsi nelle figure di madri letterarie che invece tanto amava ieri . Quelle di Elsa Morante o di Elena Ferrante. Non ha cambiato gusti, è cambiata la vita. È arrivata la vita, un figlio. E la vita è diversa da come te la raccontano ed è diversa anche da come la leggi. Sapere non è solo conoscenza. Non è solo aver letto tanto, aver scritto tanto. Sapere è anche sapore, lo dice l’etimologia. Sapere la vita vuol dire saperne il sapore. Finché non l’assaggi, la vita, non la sai. Non la conosci. E se la leggi o la scrivi dopo averla assaggiata, non la riconosci più rispetto a quando la scrivevi e la leggevi prima di averla assaggiata.
Secondo me tra un po’ Silvia non si ritroverà in una frase dove dice che la scrittura serve a risarcire. “Tutti noi quando scriviamo ci regaliamo qualcosa che la vita ci ha negato o ci ha strappato via. Cerchiamo di tamponare un vuoto, di riempirlo con le parole. Ma ci riusciamo?”.
No, Silvia, quel “tutti” non va bene. Da quel “tutti” io sono fuori. Non mi ci ritrovo in quel “tamponare” “riempire vuoti”. Un libro non riempie la vita vuota di uno scrittore come un figlio non riempie la vita vuota di una donna. La vita nasce sempre come dono. “Dare alla luce” è un modo di dire che serve sia per parlare di un figlio che di un progetto. La vita è così, è sempre feconda. Fa vedere meglio quello che già c’era. Non dovremmo compiere gesti per tamponare buchi o riempire vuoti e quando accade dovremmo sapere che avviene nostro malgrado. Che così non va bene. Che prima o poi quella cosa dovrà cambiare. Vivere vuol dire sempre completare, portare a compimento, donare e arricchire ciò che è già esistente, vivo e ricco. La scrittura è per me come la madre che Silvia desidera essere.
La scrittura fa nascere storie mentre le racconta e non può essere egoista e colmatrice di vuoti perché in quel modo quei vuoti non si riescono mai a tamponare.
Mi piace, del pezzo di Silvia Avallone, il finale in cui dice che “le parole che sono già state inventate, in questo momento non reggono il confronto con le cose”. È vero, le opere, le cose, sono vita, e scoprire che più la vita si fa “densa” più le parole non bastano, è una bella cosa. Anche se questa è proprio la sfida di ogni scrittore vero: trovare parole che contengono le cose nuove di ogni giorno.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlSussidiario.net