«È semplice, tutti lo possono imparare», assicura padre Eugenio Costa, autore di Misericordes sicut Pater. E ci svela cosa l’ha ispirato nella composizione. Non è una marcia trionfale. E neppure un allegro con brio. Semmai un andante moderato.
L’inno ufficiale dell’imminente Giubileo colpisce per semplicità. «D’altra parte», scherza padre Eugenio Costa, «dovrà accompagnare una processione con centinaia di celebranti per l’inaugurazione dell’anno giubilare. Non posso far correre i vescovi». Padre Costa ha scritto il testo dell’inno Misericordes sicut Pater, cioè «Misericordiosi come il Padre», musicato dall’inglese Paul Inwood. Collaboratore dell’Ufficio liturgico della Conferenza episcopale italiana e del direttore della Pontificia cappella musicale Sistina, il gesuita Eugenio Costa è oggi impegnato nella Curia del suo ordine, come segretario per l’Europa meridionale. «Al di là di questa occasione solenne», ci assicura, «l’inno è stato concepito per un utilizzo ordinario nella liturgia. Chiunque lo può cantare. Alla Curia generale dei Gesuiti lo abbiamo già imparato».
Il ritornello sottolinea che la misericordia è propria del Padre, mentre le strofe seguono una scansione trinitaria.
«Era appropriato dare una struttura teologica al canto. E la base della teologia cristiana è la Trinità. Le prime tre strofe ci dicono che la misericordia è data dal Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo… che è il riassunto di duemila anni di teologia. La quarta strofa si riferisce a noi, al mondo e alle sue vicende, a ciò che la Trinità ci promette e noi invochiamo. È il “già e non ancora”. Perché il compimento del regno di Dio non è un sogno, ma una speranza. E ha i piedi già di qua, in questo mondo».
Accanto al testo lei ha esplicitato vari riferimenti biblici… Salmi, Vangeli, san Paolo, Apocalisse. Come un testo da meditazione.
«Qualche giorno fa un mio confratello mi ha confidato di averlo usato per un ritiro a un gruppo di religiosi. Mi è parso utile offrire i passi scritturistici di riferimento come spunti per la preghiera personale».
Come è stato scelto il compositore della musica?
«Il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione ha mandato il testo a 90 compositori di tutto il mondo, indicendo un concorso. Ventuno hanno risposto e, tra questi, è stato scelto il lavoro di Paul Inwood, un compositore cattolico inglese, un laico».
Anche la musica è sobria e lineare.
«È una modalità contenuta, in gergo tecnico si chiama “tono minore”. La tonalità maggiore è allegra, squillante, positiva. Quella minore è più meditativa e raccolta. La musicazione di Inwood è stata preferita tra le tante pervenute perché afferrabilissima. E permette diverse esecuzioni. La strofa può essere cantata da voce singola o coro, mentre il ritornello e il responsum – cioè il breve intercalare che inframezza le strofe – richiedono la partecipazione di tutta l’assemblea».
L’andamento è quasi penitenziale. Un complemento al testo, che non mette in primo piano la coppia “colpa-perdono”?
«È vero, non è la prima cosa che balza agli occhi. Dal punto di vista dei contenuti avevo ricevuto alcuni vincoli, in primo luogo formali. Mi era stato chiesto un testo di quattro strofe, con ritornello e responsum in latino. Il risultato è una forma litanica, costruita sul Salmo 135, come si capisce dal responsum che recita “in aeternum misericordia eius”, “in eterno sarà il Suo amore per noi”».
Perché in latino?
«È il tipico rompicapo posto dalle celebrazioni a San Pietro, dove si riuniscono migliaia di appartenenti a lingue e culture differenti. Che lingue capiscono? Che tradizioni liturgiche hanno?».
Almeno per il canto liturgico, il latino resta la lingua franca della Chiesa…
«La questione non è “latino sì, latino no”, ma “latino tanto quanto”. È una delle lezioni di Taizé. Il compositore di molti dei loro canti, oggi conosciutissimi, era Jacques Berthier, cattolico che conobbi molto bene mentre era organista alla nostra chiesa di Sant’Ignazio, a Parigi. Ebbe l’idea di mettere in circolazione alcuni brevi ritornelli – come Ubi caritas oppure Adoramus te, Domine – che chiunque poteva comprendere e memorizzare. Vi sono poi testi dell’ordinario della Messa che tutti ancora ricordano, come il Credo, il Sanctus, l’Agnus Dei. Se utilizzato con circospezione, ad esempio per assemblee così diversificate, il latino svolge la sua buona funzione. Basta farne un uso intelligente. Come il Q.B. nelle ricette: “Quanto Basta”».
Insomma, serve anche qui il discernimento.
«Non è questione di preferenze personali, estetiche o sentimentali che siano. Bisogna essere attenti a non farsi prendere dalle ideologie, presenti anche nella musica sacra. Cantiamo quello che, di volta in volta, aiuta l’assemblea a pregare. Questo sì che è un criterio liturgico».
A volte si parla di “salvaguardia della liturgia” con un linguaggio da riserva naturale. Come di un animale in via di estinzione.
«La liturgia non è una macchina, né un masso granitico. Non è bianco o nero. Non è “prendere o lasciare”. Il Vangelo proclama che “il sabato è per l’uomo”, non il contrario. Cosa significa allora “salvaguardare la liturgia”? Significa accogliere la realtà della riforma liturgica, che è un ricchissimo progetto a nostra disposizione, con quel tanto di flessibilità e intelligente adattamento che è richiesto dalle varie circostanze in cui si celebra».
Come mantenere la liturgia viva, evitando gli scogli delle nostalgie e delle fughe in avanti?
«Userei un’espressione musicale tipica, cioè “variazioni sul tema”. Cosa vuol dire? Nella liturgia latina abbiamo un impianto fondamentale formato dai libri liturgici: il Messale, il Lezionario, il Rituale, la Liturgia delle Ore. Questo è il “tema”, cioè lo scheletro, che va rimpolpato con le “variazioni”, ossia la carne dei singoli Paesi. In due sensi: da un lato, considerando le lingue nazionali proprie, dall’altro considerando le circostanze concrete. Perché celebrare in tre in una cappella privata o in centomila a piazza San Pietro non è la stessa cosa».
Redazione Papaboys (Fonte www.credere.it/Paolo Pegoraro)