A fianco di Papa Francesco, per una Chiesa in dialogo con tutto il mondo. Chiusura del Convegno ecclesiale di Firenze con le parole del segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, al microfono di Luca Collodi della Vaticana.
R. – Si sta certamente operando in termini di dialogo, di confronto, di un convenire cioè intorno a dei temi da parte di persone diverse. C’è, però, anche qualcosa di molto interessante: una sorta di discernimento che la Chiesa italiana sta facendo qui; un discernimento intanto rispetto al Vangelo, tanto per cominciare; un discernimento soprattutto che viene guidato, che viene accompagnato da quello che Papa Francesco ci sta domandando e ci sta domandando di osare di più in questo confronto tra fede e storia; di osare di più come Chiesa in questo confronto con il mondo moderno. Il Papa ci sta chiedendo più coraggio – come Chiesa – ad incontrare questo nostro mondo, che non è un mondo fatto solo di negatività e che anzi può darci stimoli interessanti, che può aiutarci ad osare di più.
D. – La sfida è alta perché nella vita sociale la sensazione è che ci sia un umanesimo non positivo…
R. – Sì, io direi ancora di più: la sensazione è che ci sia un anti-umanesimo e la parabola antiumanistica non è soltanto un fatto culturale, è un fatto anche di gesti. Non dimentichiamo che ci troviamo di fronte a situazioni nelle quali l’umanesimo, inteso anche come rispetto della dignità delle persone, è messo sotto i piedi a diversi livelli. Quindi da questo punto di vista la Chiesa è chiamata a recuperare la sua funzione di madre e di maestra.
D. – Guardiamo ai prossimi anni della vita della Chiesa italiana: che germogli sono stati coltivati qui a Firenze?
R. – Io ho l’impressione che siano stati coltivati gli stessi germogli che la Chiesa da sempre coltiva. Più che germogli nuovi, sono emersi sicuramente desideri rinnovati, speranze rinnovate, voglia di esserci e di esserci come credenti, di esserci come uomini e donne capaci di dire all’uomo di oggi che il Vangelo è vero e che il Vangelo è possibile.
D. – Il laicato cattolico sembra ultimamente un po’ addormentato. Firenze può essere un’occasione di rilancio?
R. – Io me lo auguro! Non lo so se è addormentato o se lo abbiamo addormentato o se si è addormentato da solo… Di sicuro non si sente forte la presenza della esperienza cristiana in questo nostro mondo. Da una parta non la si sente, ma dall’altra, dove c’è, si fa di tutto da parte di alcuni per metterle o il silenziatore o addirittura il mordacchio. Allora veniamo chiamati in questo momento, come cristiani, come cattolici, qui in Italia, anzitutto a prendere le distanze da qualsiasi atteggiamento vittimistico, perché il vittimismo non porta da nessuna parte; ma ad essere gente, invece, che coltiva la consapevolezza della novità del Vangelo, dell’attualità del Vangelo: una novità e una attualità che possano diventare vita soltanto se camminano sulle gambe di persone coerenti, persone che riconoscono i propri limiti, il proprio peccato, ma non si fanno affossare dal limite del peccato, trovano anzi occasione di partire, di ripartire – come dice Mario Luzi, poeta fiorentino – da questa mancanza per potersi lanciare in avanti con l’aiuto del Signore.
D. – Dopo Firenze si può pensare a un Sinodo della Chiesa italiana?
R. – Non penso proprio! Di sicuro, però, veniamo stimolati dal Papa e anche dall’esercizio bello, perché è veramente bello , che abbiamo fatto e che stiamo facendo in questi giorni: veniamo richiamati a coltivare uno stile di sinodalità, che significa uno stile di ascolto, di dialogo, di attenzione, di accoglienza anche dell’altro. Questo però lo può fare soltanto chi è libero interiormente. A me è piaciuto molto quando il Papa ha parlato di una Chiesa libera da questo desiderio di potere. Attenti, però, perché non c’è soltanto il potere da condividere con il governo o con qualsiasi altra realtà. No! C’è anche il potere di chi pensa di avere la verità in tasca e che questa verità che ha in tasca non abbia bisogno di alcun confronto, di alcuna verifica. Dobbiamo liberarci da questo, che – ripeto – non vuol dire non credere che Gesù Cristo è veramente l’uomo nuovo, ma credere che il Gesù Cristo che io ho percepito, che io vivo, sia quello l’uomo nuovo: bisogna anche come Chiesa sottoporre continuamente a discernimento – e questo il Papa ce lo ha chiesto – il modo in cui noi viviamo la nostra esperienza religiosa, se sempre risponde ai criteri del Vangelo, se sempre risponde anche ai criteri anche di una Chiesa che è chiamata ad essere – come Cristo – umile, accogliente e gioiosa.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)