“L’universale chiamata dei cristiani alla santità” è stato il tema della seconda predica di Avvento tenuta stamattina da padre Raniero Cantalamessa al Papa e alla Curia Romana. Il Nuovo Testamento, ha detto fra l’altro il predicatore pontificio, esorta alla “conversione dalla tiepidezza”, perché la santità non è una imposizione da temere, ma la chiamata più normale per coloro che sono creati a immagine di Dio.
La santità? Anzitutto basta averne paura. Se è, come è, per la Chiesa una “vocazione universale” la “prima cosa” da fare quando si parla di santità – afferma padre Cantalamessa – “è di liberare questa parola dalla soggezione” che “essa incute” a causa di “certe rappresentazioni errate”.
Non tutti i fiori sono per l’altare “La santità può comportare fenomeni e prove straordinari, ma non si identifica – dice il religioso francescano – con queste cose”: “Se tutti sono chiamati alla santità, è perché, intesa rettamente, essa è alla portata di tutti, fa parte della normalità della vita cristiana. I santi sono un po’ come i fiori: non ci sono solo quelli che vengono messi sull’altare. Quanti di essi sbocciano e muoiono nascosti, dopo aver profumato silenziosamente l’aria intorno a loro! Quanti di questi fiori nascosti nascono e sbocciano continuamente nella Chiesa!”.
Non per rito ma col cuore Parlando di santità bisogna poi considerare l’eredità dell’Antico Testamento rispetto al Nuovo. Nel primo, osserva il predicatore pontificio, prevaleva l’idea “ritualistica” della santità, il suo raggiungimento legato al frequentare certi luoghi, osservare certi precetti. Nel Nuovo Testamento la santità – come spiega bene San Paolo – è una “vocazione”: “Santità non è più un fatto rituale o legale, ma morale se non addirittura ontologico. Non risiede nella mani, ma nel cuore; non si decide fuori dell’uomo, ma dentro l’uomo (…) I mediatori della santità di Dio non sono più luoghi – come il tempio di Gerusalemme o il monte Carizim per i samaritani – ma è una persona, Gesù Cristo”.
Senza fede le opere non sono “buone” In ottica cristiana, santi – prosegue padre Cantalamessa – lo si diventa “per appropriazione e per imitazione”. La santità è anzitutto un dono di grazia ma, ricorda il predicatore pontificio, ce se ne può appropriare imitando “l’audacia” dei Santi, che più di altri hanno compreso la verità di San Paolo, è cioè che “noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi”, allora anche “la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità”. Secondo, l’imitazione, ovvero le “opere”, “lo sforzo personale” perché se “Cristo è anzitutto un dono da ricevere mediante la fede”, è “anche un modello da imitare nella vita”: “L’opposizione fede-opere – e oggi ce ne rendiamo conto – è un falso problema, che è stato tenuto in piedi, per secoli dalla polemica, dalle prevenzioni. Le opere buone, senza la fede, non sono opere ‘buone’ e la fede senza le opere buone non è vera fede. Basta che per “opere buone” non si intendano principalmente – come purtroppo avveniva al tempo di Lutero – indulgenze, pellegrinaggi, candele, pie pratiche, quanto piuttosto l’osservanza dei comandamenti di Dio, in particolare quello dell’amore fraterno”.
Santi si diventa Dunque, nel passare dall’Antico al Nuovo Testamento un punto resta “immutato”, sostiene padre Cantalamessa, “e anzi si approfondisce”, cioè il “perché bisogna essere Santi: perché Dio è Santo”: “La santità non è un lusso, non una imposizione, un onere, è un privilegio, è un dono, è un onore sommo. E’ come ereditare la dignità del proprio casato, del proprio padre: è un obbligo, sì, ma che deriva dalla nobiltà di essere figli di Dio (…) Non è tanto natura, è vocazione. Se dunque noi siamo “chiamati ad essere santi”, se la nostra vocazione è questa, allora saremo persone vere, riuscite, nella misura in cui saremo santi. Diversamente, siamo dei falliti. Il contrario di santo non è peccatore, ma fallito!”.
Il vertice della dignità Ciò che alla fine conta, conclude il predicatore pontificio, è che la santità è sempre un cammino verso il quale “rimettersi in moto”. Se la maggioranza della gente rimane ferma – come diceva Pascal – al “primo livello” della grandezza umana, quello della materia, e altri ritengono che il livello dell’intelligenza sia il suo culmine, c’è un terzo livello per i cristiani da tenere sempre in conto, quello della santità, appunto, per nulla in contrasto con gli altri due: “Perché questa grandezza dovrebbe essere la suprema trascendente? Primo perché è la grandezza agli occhi di Dio che è vero misuratore della grandezza; secondo, perché realizza quello che c’è di più degno dell’uomo, la libertà. Non dipende da noi nascere forti o deboli, ricchi o poveri, belli o meno belli; ma dipende da noi essere onesti o disonesti, persone buone o persone cattive, in altre parole santi o peccatori. Questo dipende da noi”.
Il servizio è di Alessandro De Carolis per la Radio Vaticana