Una pagina importante per la storia del movimento dei focolarini, ma al tempo stesso anche del pontificato di Montini, è raccontata in un libro (Paolo VI e Chiara Lubich. La profezia di una Chiesa che si fa dialogo, Roma, Edizioni Studium, 2015, pagine 224, euro 22) dove sono raccolte le relazioni di un convegno che si è tenuto nel 2014 sul rapporto intenso e fruttuoso che ha unito la fondatrice Chiara Lubich e Paolo VI sin da quando Montini era sostituto e che è continuato, ma in modo meno intenso, durante l’episcopato milanese.
L’incontro era avvenuto grazie alla mediazione di una delle prime compagne di Chiara, Eli Folonari, amica di famiglia dei Montini, e subito aveva preso una piega positiva perché il prelato aveva colto immediatamente l’importanza e la creatività del nuovo modo di essere cristiani proposta dalla giovane trentina. E il rapporto era stato rafforzato dall’adesione al movimento di Igino Giordani, amico di Montini. I primi due saggi — di Andrea Riccardi sulla nascita dei movimenti, e di Alberto Monticone sull’apostolato dei laici negli anni a cavallo del concilio — sono forse i meno nuovi e interessanti: il primo perché affronta il tema in modo acritico, senza dare spazio o voce a chi guardava ai movimenti con preoccupazione. Un esempio di storia da un punto di vista parziale, al punto da far pensare che forse non si doveva affidare questo tema delicato a uno storico senza dubbio di valore, ma parte in causa in quanto fondatore di un movimento. Il secondo, di Monticone, è una ricostruzione minuziosa, che però non riesce a cogliere la specificità dei focolarini nel calderone, ricco e vivace, delle iniziative dei laici in quegli anni. Molto più nuovi e interessanti i saggi successivi, sulla storia dei rapporti fra Lubich e Montini: nell’insieme, una ricostruzione precisa e attenta, ricca di particolari inediti che riemergono da un esame rigoroso degli archivi. L’aspetto più interessante consiste proprio nella profondità e sincerità del dialogo fra i due: Montini riconosce nell’opera di Chiara la guida dello Spirito, e la segue con trepidazione e grande attenzione. Sa che il suo dovere sarà quello di aiutare, ma anche d’imparare. Imparare nuovi metodi per l’apostolato dei laici, nuove vie per realizzare l’ecumenismo, e — ma questo gli autori dei diversi saggi non lo notano — per iniziare un nuovo tipo di collaborazione fra la gerarchia ecclesiastica e le donne. Collaborazione in cui una donna, Chiara Lubich, viene ascoltata, in parte anche seguita. E a lei verranno affidati via via compiti sempre più importanti. L’esempio più fruttuoso di questa collaborazione è nella pratica dell’ecumenismo. Paolo VI è tra i primi a comprendere la mistica della fondatrice — il suo programma «perché tutti siano uno» costituisce la base apostolica dell’ecumenismo — e a indirizzare il movimento in questa direzione: sia attraverso l’apostolato nei paesi del blocco comunista, che segue con emozione e soddisfazione e riguarda anche il rapporto con i non credenti; sia con le altre confessioni cristiane, in particolare luterani e ortodossi. Ed è con questi ultimi che il rapporto si farà più fruttuoso grazie al lavoro instancabile di Lubich, che costruisce con pazienza, tempo e naturalmente amore l’amicizia con il patriarca Atenagora. Tra il 1967 e il 1972 Chiara fu il tramite ufficioso fra quest’ultimo e il papa, spinti dall’anelito di Atenagora a «celebrare insieme, nell’unico calice», ristabilendo, dopo mille anni, la piena comunione con la Chiesa di Roma. Lubich, nel 1967, in un incontro privato con Paolo VI, aveva infatti ricevuto la consegna di mantenere, come movimento, rapporti con le Chiese ortodosse. In questa fase, la presenza e l’instancabile attività di tanti focolarini nell’intrecciare legami di amicizia, momenti comuni di preghiera e di attività caritativa, hanno fatto sì che questo riavvicinamento non fosse solo un’operazione di vertice, una questione teologica e di politica religiosa, ma la nascita di una nuova e vera amicizia spirituale. Paolo VI lo capiva benissimo, tanto da parlare di «riavvicinamento ecumenico autentico». E così spiegava i motivi della sua fiducia: «Anche loro devono sapere che questo movimento così condotto, con lealtà, senza volere bruciare le tappe, ma volendo davvero trovare dell’amicizia, dà modo di risolvere anche le questioni reali teologiche per una crescente unità. A noi dà molto piacere, e merita il nostro augurio e la nostra benedizione». Paolo VI svolse un ruolo decisivo nel sostegno all’Opera di Maria, l’insieme delle iniziative focolarine, che riceve proprio da lui, il 5 dicembre 1964, l’approvazione definitiva. Montini aveva guidato per anni Chiara nel difficile percorso teso a ottenere il riconoscimento ecclesiastico di un gruppo del tutto originale, retto al cuore da una intuizione mistica — «il Cristo tra noi» — e con il fine dell’unità. Un gruppo riunito intorno a Chiara che, partito da alcune ragazze trentine, si era allargato fino ad accogliere anche uomini e perfino sacerdoti, laici consacrati ma anche coppie di coniugi, persone di estrazione sociale diversissima, di professioni differenti, provenienze geografiche diverse, tenuto insieme dal carisma dell’unità. Si può ben capire come questa nuovissima costellazione avesse suscitato nella Chiesa molte e forti perplessità: veniva rimproverata una esaltazione collettiva, una familiarità eccessiva tra i due sessi, una sottovalutazione degli effetti del peccato originale, uno pseudo misticismo naturalistico e altre obiezioni di questo tipo. Arrivando quasi alla decisione di sciogliere il movimento. Da una parte l’umiltà di Chiara, che interpretava tutti gli ostacoli come un invito alla purificazione e al miglioramento, dall’altra l’aiuto costante di Montini, riuscirono però a rovesciare la situazione, che ebbe finalmente un esito positivo. Ma come realizzare l’unità fra i diversi rami — maschile, femminile, dei coniugati e sacerdotale — che si erano delineati? Come codificare una regola nata dall’esperienza e «dettata via via dalla vita»? Chiara paragona il costituirsi dell’Opera a una creatura che nasce al mondo: «Nasce così, senza la carta di identità.
Poi quando cresce si fa la carta d’identità che è ricavata dalla persona». La soluzione che ne garantiva l’unità si trovò nella creazione di un consiglio direttivo di laici, che ne avrebbe coordinato le iniziative. Più tardi si sarebbe deciso che la presidenza del consiglio sarebbe stata sempre conferita a una donna, affiancata da una figura maschile di vicepresidente. Dalla lettura di questi saggi si percepisce la singolarità del movimento, e la grande attrattiva esercitata su Montini, che ne leggeva commosso i segni dell’azione dello Spirito in una direzione completamente nuova, mai sperimentata dalla Chiesa. Ma nessuno di essi mette a fuoco il tema femminile: il movimento nasce dall’imitazione di Maria nel suo rapporto con Gesù, da parte di un gruppo di ragazze, laiche, da una leadership quindi tutta femminile. Anche i sacerdoti che ne fanno parte accettano questa gerarchia rivoluzionaria, che fa dei focolarini un movimento all’avanguardia per quanto riguarda il posto della donna nella Chiesa. Lubich infatti, con il suo sguardo profetico, aveva fin da subito pensato a una collaborazione tra donne e uomini che non vedeva le prime in un ruolo subordinato, ma al vertice di progetti e iniziative. Il primo passo di una rivoluzione da venire, ma necessaria.
Redazione Papaboys (Fonte L’Osservatore Romano, 09 gennaio 2016)