Se fossero riuniti tutti insieme sotto un’unica volta, riempirebbero la chiesa barocca di Sant’Ignazio di Loyola a Roma. Sono i 2.439 seminaristi della Chiesa italiana, censiti al 31 dicembre 2014. Numero che sale a 2.753 se si tiene conto dell’Ordinariato militare (13) e della prelatura della Santa Croce e Opus Dei (301). Ma è vero che i seminari d’Italia si stanno svuotando e che non ci sono più nuove vocazioni? Le statistiche aiutano a comprendere la tendenza in atto, che si presenta con caratteristiche differenti in base alle Regioni.

Nell’arco degli ultimi dieci anni rilevati, la flessione a livello nazionale è stata pari a circa il 12 per cento.

Nel 2004, infatti, il totale degli studenti di filosofia e teologia nei centri diocesani era pari a 3.145. Per afferrare le dimensioni del fenomeno, però, è utile considerare altri due aspetti. I decessi di sacerdoti sono stati 736 nel 2004 e 666 nel 2014, mentre gli abbandoni si sono mantenuti, più o meno costanti, attorno ai 40 annui. A ciò si aggiunga il numero delle ordinazioni, passate da 454 a 405 (-12 per cento), e il totale dei sacerdoti diocesani, scesi da 33.684 a 32.174 (-4,7 per cento). Nel complesso, dunque, la diminuzione di seminaristi è una realtà accertata ma il sistema generale del clero italiano poggia ancora su basi solide.




I seminaristi nelle 16 Regioni ecclesiastiche. A guidare la classifica delle Regioni ecclesiastiche con il maggior numero di seminaristi sono Campania (12,9 per cento) e Lombardia (12,8). Seguono: Triveneto (11,6), Sicilia (10,5), Lazio (9,3), Puglia (9,3), Calabria (5,6), Emilia Romagna (5,3), Piemonte (4,4), Toscana (4,1), Marche (3,2), Sardegna (2,8), Umbria (2,5), Abruzzo-Molise (2,3) Liguria (2), Basilicata (1,4). I vescovi italiani, consapevoli delle difficoltà che sta attraversando il clero e mossi dalla volontà di sostenere i sacerdoti, dedicheranno l’Assemblea generale di maggio al tema del rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, “nella consapevolezza che essa risponde non tanto o solo a un’esigenza di qualificazione, quanto alla necessità di approfondire un mistero di vocazione mai pienamente esaurito”. Per raccontare la realtà dei seminari, avviamo un’inchiesta a più puntate che parte dalle Isole e percorre l’Italia da Palermo a Milano, per scoprire le risorse e indagare le crisi che stanno dietro ai numeri ufficiali.

Sicilia: attenzione ai poveri e fatica nella formazione. “Un’attenzione particolare verso i poveri, che non sono soltanto destinatari dell’azione pastorale ma protagonisti della vita della comunità”. Don Silvio Sgrò, rettore del Seminario Arcivescovile di Palermo “San Mamiliano”, guida una equipe di educatori che lavorano per formare “uomini di Dio con una solida dimensione spirituale e, al contempo, capaci di incarnarsi nella storia”. Incoraggiati dalle parole di Papa Francesco, spiega, ma anche sostenuti “dalle tante figure che la nostra terra ha donato alla Chiesa, non ultimo padre Pino Puglisi, che ci hanno esortato ad avere una dedizione speciale per gli ultimi”.
Il Seminario annovera 57 studenti e 4 ragazzi al propedeutico. Rispetto agli ultimi anni ha registrato una lieve crescita, contribuendo a porre la Sicilia al quarto posto tra le Regioni ecclesiastiche come numero di seminaristi (256). A Palermo arrivano anche giovani di Cefalù, Mazara del Vallo, Trapani, Piana degli Albanesi, Caltagirone. Hanno tutti tra i venti e i quarant’anni, molti di loro con un percorso universitario o lavorativo alle spalle: “È raro che si entri dopo il diploma, ma anche noi lo scoraggiamo perché siamo convinti che a diciotto anni non si possa prendere una decisione consapevole”.

Nel Seminario si fatica a conquistare la fiducia degli studenti, indispensabile nei confronti dei formatori: “C’è una diffidenza, soprattutto all’inizio, verso l’autorità. È un atteggiamento diffuso e il nostro compito è instaurare relazioni serene, aperte e confidenziali. Se c’è fiducia, si può andare avanti. Altrimenti è difficile”.

Quanto alla formazione permanente, precisa don Sgrò, “avvertiamo la necessità di una migliore strutturazione perché, anche se nel nostro progetto è previsto che la formazione in seminario debba necessariamente condurre a quella permanente, c’è ancora parecchia strada da compiere”.

Sardegna: religiosità popolare e crisi sociale. Il Pontificio Seminario Regionale Sardo ospita i giovani delle dieci diocesi della Regione. Affidata alla Compagnia di Gesù dal 1927 al 1970, la struttura è oggi diretta da monsignor Antonio Mura. Negli ultimi trent’anni i seminaristi che vivono a Cagliari sono sempre stati attorno ai 60 (attualmente 62), fatta eccezione per una stagione particolare a cavallo di inizio millennio, quando il numero salì a 90. “Un tempo i seminari minori erano il bacino da cui proveniva la maggioranza dei giovani. Oggi è tutto cambiato – spiega mons. Mura –, nella nostra comunità, ad esempio, abbiamo uno studente di 47 anni. Anche le storie personali sono assai diverse: si va da percorsi di conversione a persone che erano fidanzate. La propedeutica, allora, è un’opportunità di discernimento soprattutto per gli adulti”.Seminario di Cagliari




Tanti i giovani che entrano in seminario dopo esperienze personali o familiari difficili, senza dimenticare l’influsso di un individualismo diffuso: “La formazione potrebbe seguire anche percorsi personali, ma la Chiesa ha sempre sentito l’esigenza di una vita comunitaria che fosse laboratorio di relazioni. È impegnativo, però, confrontarsi con il soggettivismo che impera”.

Usciti dal seminario, poi, i sacerdoti devono ricordare che “non si può fare a meno di un percorso che riattivi continuamente le motivazioni, gli orientamenti e la dimensione di Chiesa in cui si vive. La formazione permanente non è semplicemente un aggiornamento teologico, ma una crescita interiore e umana”.

La Sardegna è attraversata da una lunga crisi sociale ed economica che, osserva il rettore, “sta dissanguando il mondo giovanile, costretto a emigrare per mancanza di lavoro. Si stanno spopolando interi paesi e le previsioni per il futuro sono terribili, spariranno decine di comunità”. In questo contesto, quali prospettive hanno i giovani sacerdoti? “C’è una grande ricchezza che ancora tiene ed è costituita dalle tradizioni ecclesiali e popolari, profondamente radicate nella storia di questa terra. La fede è viva ma c’è tanto da lavorare, perché la dimensione popolare ha bisogno di una continua evangelizzazione”.





Redazione Papaboys (Fonte agensir.it/Riccardo Benotti)