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Il mio rapimento? Un’esperienza di conversione

Se lo volesse, Rolando del Torchio potrebbe scrivere non una, ma due, tre autobiografie. Giovane prete del Pime, consacrato da Carlo Maria Martini, a metà degli anni Ottanta appassiona i giovani al Vangelo, organizzando campi di lavoro nella periferia di Napoli e nelle favelas del Brasile, visitando i centri per immigrati sul litorale domizio, promuovendo gemellaggi con Angera, sul Lago Maggiore, dove è nato 57 anni fa.

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Poi negli anni Novanta vive missionario nelle Filippine, cane sciolto, arrabbiato contro la corruzione dei politici locali, la violenza delle miniere che stuprano il territorio e affamano i senza voce; appassionato a metter su cooperative popolari per macinare il grano, inscatolare sardine ed essiccare manghi. Quindi prete “in stand by” con la sua Chiesa, ma non con il suo Dio. Alla ricerca di una strada diversa, anche in Italia, tra la casa della Carità di Milano e l’organizzazione di un catering multietnico. Infine il ritorno da imprenditore nelle Filippine, dove apre il ristorante pizzeria Ur Choice Bistro Café, a Dipolog, nell’isola di Mindanao, con il forno e le piastrelle fatti arrivare dalla Campania, e gli amici che a turno lo visitano e spiegano i segreti della pizza e della parmigiana di melanzane. All’orizzonte vaghi progetti matrimoniali. Testardo, un po’ orso, tifoso del Bologna per eredità paterna, Del Torchio si spende in ogni impresa senza risparmiarsi. Raccogliendo consensi e malumori.
Tutto questo fino al 7 ottobre dello scorso anno, quando un commando di terroristi islamici entra nel locale, lo rapisce e lo tiene prigioniero per sei mesi. Dopo estenuanti trattative, la famiglia paga un riscatto. Del Torchio viene rilasciato. Nello stesso giorno, il 9 aprile, la madre compie 93 anni. E il 26 aprile, quando arriva in Italia, i terroristi uccidono uno degli altri ostaggi, il cittadino canadese John Ridsdel.
A un mese di distanza, qualche chilo di peso, dei 40 persi, è stato ripreso. E una consapevolezza nuova è stata acquisita, come se la prigionia avesse scavato, a sangue, la parte più nascosta della sua persona, scrivendo un altro capitolo della sua vita, forse il più importante, fatto di lunghe camminate nella giungla insieme all’esercito di 500 uomini di Abu Sayyaf, assordanti silenzi e un percorso interiore segnato da un costante faccia a faccia con Dio.
«Ti senti abbandonato, perso, non riesci a guardare dentro di te. Ma già dall’inizio cominciarono a emergere nella mente, quasi automaticamente, brani del Vangelo». Sdraiato su una scogliera, a picco sul mare, coperto dalle piante, la mani legate, alla mente risuonano parole del Vangelo di Luca, quelle del capitolo 12: i passeri del cielo, i gigli dei campi… Non abbiate timore… «Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?».
«Era mattina presto, vedevo questi uccelli colorati che cantavano, intorno una natura incontaminata, bellissima. Mi ricordai di san Francesco. Dentro di me emergevano figure, parole che credevo dimenticate. Facevano parte della mia vita, questo mi dava fiducia, leniva la disperazione».
È anche il tempo del “confronto”. «Portato nel mondo di Abu Sayyaf, mi sono scontrato e incontrato con la loro religiosità». Ha mai pensato che il Dio dei terroristi era anche il suo? «Per me Dio è uno. Cambia l’interpretazione. Quando loro recitavano Allah Akbar, io dicevo in silenzio il Padre nostro. Ma sentivo che c’era qualcosa in più: l’amore, la misericordia». Ascoltando la lunghe nenie della preghiera recitate in arabo, gli tornano alla mente alcune pagine del Vangelo sui farisei: «Sanno tutto della legge, ma non ne colgono il cuore». O Geremia: «Non ho bisogno dei vostri sacrifici, ma del vostro cuore convertito». Dice: «Vedevo queste persone religiosamente ligie che pregavano cinque volte al giorno, partecipavano a incontri di istruzione sul Corano, ma poi ritenevano che la pratica religiosa fosse il prepararsi, con armi e bombe, a uccidere e a morire. E mi chiedevo: “Ma dov’è questo cuore convertito?”».
La domanda gli si ritorce contro. “E tu Rolando hai un cuore convertito?”. In quel momento inizia il dialogo e il conflitto con Dio: «“Sentivo” la Passione di Gesù». Strappato da ogni cosa, portato via a forza, interrogato, accusato di essere stato missionario e quindi mandato a distruggere l’islam. Picchiato, umiliato, deriso come dai soldati sotto la croce: «Hai salvato tanti altri, ma non te stesso, dov’è il tuo Dio? Non è forte come Allah, ti ha abbandonato». Per andare avanti, racconta, «bisogna resettare affetti e ricordi delle persone care, smettere di pensare all’abbraccio dei tuoi familiari».

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Mentre litiga con Dio («Perché mi hai abbandonato?»), torna l’immagine della sua consacrazione presbiterale, nel giugno 1984: prostrato per terra nel duomo di Milano, in silenzio chiede esplicitamente il martirio. Non è la fantasia di un momento: la sua vocazione “filippina” era infatti maturata dopo un evento traumatico: «Nelle Filippine era stato assassinato un mio amico, padre Tullio Favali. Questo ha inciso sul mio cammino di fede. Ero rimasto segnato dal Vangelo di Giovanni: “Non vi chiamo più servi ma amici” e “non c’è amore più grande che donare la vita”». Il ricordo dell’antica promessa è una folgorazione: «Ho pensato che a Dio non scappa veramente nulla nella nostra vita. “Tu sai che ho paura”, gli ho detto, “sai che non voglio bere questo calice. Ma alla fine sei l’unica persona che parla con me, mi fa pensare, mi dà pace. A Te mi affido”».
Traduce le lunghe lezioni di islam che il capo dei guerriglieri gli tiene e capisce che il suo essere mujahidin è arrendersi alla volontà di Dio. In quel momento crede che la famiglia stia per finire in bancarotta per pagare il riscatto. «Adesso», pensa, «ho un motivo per morire: offrire la mia vita per i miei, per i nipoti, i loro figli. Non mando nessuno sul lastrico». Da quel momento riceve «il dono della pace interiore». Il racconto procede spedito, come se la parole fossero state a lungo coltivate, scarnificate, essenzializzate. Viene spontaneo osservare che sembra di sentire parlare ancora il missionario. «Beh, lo sono stato», dice. «A un certo punto me ne sono andato perché non riconoscevo più l’autorità morale della Chiesa nella mia vita, per tante cose di cui sono stato testimone. Per 16 anni non ho più messo piede in chiesa. Continuavo a pregare, in un dialogo continuo, ma a Dio parlavo in una maniera molto arrabbiata. A me piaceva fare il prete. “Perché non mi hai trattenuto, non mi hai tirato per i capelli? Perché mi hai lasciato andare via e non mi dai pace?”». Sedici anni di inquietudine, poi, nella giungla, in mezzo ai rapitori, sente la presenza di questo Dio geloso: «Non vuoi lasciarmi andare? Potevi trovare un altro sistema, mi hai fatto passare dalla passione, che è il cuore della nostra fede. Adesso ti chiedo la risurrezione».
Le immagini della liberazione passano sui media di tutto il mondo. Barba lunga, dimagrito, Del Torchio torna a casa. Ora non sa ancora se il nuovo capitolo che sta per scrivere sarà ambientato nelle Filippine, in Italia o altrove. Unica certezza è quella preghiera pronunciata nella giungla, che segna il nuovo patto con Dio: «Spero di ritornare nella pace che mi stai facendo vivere. Mi hai fatto fare un cammino di sofferenza. Risorgere potrebbe essere tornare a casa trasformato in un altro Rolando, contento di essere stato ripreso da Dio».

Redazione Papaboys (Fonte www.credere.it)

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