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Uomini che uccidono donne come fossero giocattoli rotti

In tre giorni, una strage. L’ultima è Alessandra Maffezzoli, maestra, 46 anni, uccisa ieri a Pastrengo, Verona, dall’ex convivente. Lascia due figli adolescenti. Il giorno prima Michela Baldo, 29 anni, di Spilimbergo, Pordenone, era stata trovata morta, uccisa dall’ex fidanzato che aveva lasciato, e che si è suicidato.

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Nelle stesse ore a Taranto, Federica De Luca, 30 anni, era stata assassinata dal marito, che ha poi ucciso se stesso e il figlio di 4 anni. I due si stavano lasciando. «Dovrai soffrire come soffro io», è l’ultimo sms ricevuto da Sara Di Pietrantonio, 22 anni, studentessa. La notte del 29 maggio a Roma viene strangolata e bruciata dall’ex fidanzato. Ancora Roma, il 20 aprile. Assunta Finizio viene uccisa al bar con quattro colpi di pistola. Il marito non sopportava di essere stato abbandonato. San Martino in Argine, Molinella, Bologna, 13 aprile: Liliana Bartolini, 51 anni, è accoltellata dal coniuge. L’uomo aveva una relazione con un’altra donna.

Michela, Alessandra, Sara e le altre sono solo gli ultimi nomi dell’elenco di 58 donne che in questi primi mesi del 2016 hanno trovato la morte per mano del marito, di un fidanzato, o di un congiunto. Lo chiamano ‘femminicidio’, e a noi questa parola, che pure per brevità usiamo, non piace – come se il ‘genere’ venisse prima dell’essere, una donna, persona. In ogni caso si tratta di omicidi segnati da particolari costanti: sono compiuti dal coniuge o da un compagno, o da un ex; non sono quasi mai episodi improvvisi ma arrivano alla fine di una serie di violenze fisiche o psicologiche, talvolta anche denunciate; nonostante la ferocia, gli assassini erano considerati spesso ‘perfettamente normali’ dai conoscenti. La serie di tragedie, di cui abbiamo accennato appena una piccola parte, è spaventosa, tanto da generare un più che giustificato allarme. E tuttavia, stando alle statistiche, i femminicidi sono negli ultimi dieci anni in Italia in numero pressoché costante: una tabella del 2014 dell’Istat mostra un andamento ondulatorio del fenomeno, e persino una lieve diminuzione: da un tasso dello 0,6 ogni 100 mila donne del 2004 al poco più dello 0,4 nel 2014. Anno in cui i femminicidi sono stati 136. I numeri di quest’anno, almeno fino ad oggi, sono dunque dentro una tragica, costante media.

Qualcosa però è cambiato negli ultimi vent’anni. Gli omicidi di uomini, compiuti soprattutto dalla criminalità organizzata, sono notevolmente diminuiti, all’interno di un forte calo della cifra complessiva di questi reati, che dai 1916 del 1991 sono passati ai 468 del 2014. Così che secondo l’Istat i femminicidi, che negli anni 90 erano un decimo degli omicidi totali, oggi ne costituiscono ben un terzo. Sui 468 omicidi del 2014 i femminicidi sono stati, come abbiamo detto, 136; nel 2015 sono stati 128. Non un aumento quindi, ma una atroce ‘normalità’. Secondo il Bes, il rapporto ‘Benessere equo e sostenibile’ dell’Istat del 2015, negli ultimi anni si registra inoltre un generale miglioramento nei numeri indicativi della violenza sulle donne: in calo le violenze domestiche meno gravi, più denunce e più richieste di aiuto ai centri antiviolenza, e una percezione crescente della violenza domestica sulle donne come reato.

Tuttavia ciò che resta del tutto non scalfito, secondo il Bes, è appunto la cifra degli episodi drammatici: risultano in aumento le donne che hanno subito ferite, o temuto per la propria vita. Non un picco, ma una sorta di ‘zoccolo duro’ di violenza anche mortale sulle donne, che, a differenza degli uomini, sono per lo più vittime di persone conosciute e amate, dentro le mura di casa. È questo l’elemento sconvolgente del fenomeno che viene riportato con rilevanza dai media: è il marito, il padre dei figli, il fidanzato, quello che può arrivare a uccidere. E non in un raptus, come si scrive spesso, ma frequentemente al culmine di una serie di minacce, gelosie ossessive, maltrattamenti o botte fino a quel momento tollerati. Perché? Spesso, per amore: perché quella donna ama ancora quell’uomo, perché spera che le cose migliorino, perché non vuole dividersi, o per il bene dei figli, che pure stanno a guardare. Al passo della denuncia molte donne arrivano solo dopo anni, per paura che la scelta renda più aggressivo il partner.

Ma cosa scatena la violenza omicida? Spesso lo dicono gli stessi assassini: «Mi voleva abbandonare». «Se ne voleva andare di casa». Quando, dopo anni di sofferenze, una donna si ribella a un compagno violento, allora è il momento critico: l’idea dell’abbandono può accecare di furia e disperazione il partner. Quell’uomo magari padre, lavoratore, a detta di tutti ‘normale’. Normale? Lo chiediamo allo psichiatra, saggista e ‘conoscitore d’anime’ Eugenio Borgna, che conferma: «La follia non ha quasi mai a che fare con questi episodi». Ma, strangolare la madre dei tuoi figli, dare fuoco a una fidanzata, come è possibile che sia opera di persone sane di mente? Che cosa spiega una simile ferocia? Borgna: «Innanzitutto ricordiamoci che la violenza è nel nostro Dna. La violenza fa parte della condizione umana. Oggi, dentro a una perdita comune di valori e una de-spiritualizzazione della vita, si può arrivare più facilmente a una reificazione dell’altro: a guardarlo come una cosa e non una persona, una cosa magari da comprare o comunque da possedere, anche con la forza. Questo primo impulso ne genera altri, nella scia della disumanizzazione del prossimo».

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Ma perché allora sono gli uomini a uccidere le donne, e raramente il contrario? «Che la violenza e la aggressività appartengano più alla natura degli uomini che delle donne mi sembra difficilmente smentibile. Certo anche la donna delinque, ma raramente arriva alla completa disumanizzazione dell’altro, non lo degrada a cosa, e resta comunque frequentemente in lei un filo di nostalgia dell’umano». Cosa accade nelle case in cui una donna viene uccisa da un uomo che ha amato? «C’è una violenza che si crea di giorno in giorno, all’inizio magari psicologica, tollerata da donne che la scambiano per amore, o che cercano di tutelare la famiglia e la maternità. Se poi un giorno in seguito a una violenza fisica eccessiva la donna di ribella, l’uomo si sente minacciato dall’abbandono, e può distruggere l’oggetto che sfugge dalle sue mani, come un bambino distrugge un giocattolo che si è rotto. In sostanza si uccide la moglie, così come uno che sorprenda un ladro in casa crede di essere in diritto di ammazzarlo. Sono istinti arcaici, che riemergono nella desertificazione dei valori. Non chiamiamola pazzia però: è malvagità». Un male morale che può sfociare nella disperazione assoluta, quando l’assassino uccide i figli, e poi anche se stesso.

Dunque, se anche le statistiche non rilevano per ora picchi di femminicidi, non si può, affatto, stare tranquilli. E lo stesso angoscioso allarme diffuso dai media ha almeno una utilità: suggerire alle donne che tollerare violenze ‘minori’ può essere pericoloso, che la situazione può peggiorare, che occorre denunciare e chiedere aiuto. L’allarme mediatico può far capire alle più giovani che la possessività e la gelosia ossessiva di un ragazzo non sono, come magari credono, ‘amore’, ma segnali di qualcosa che non va, di uno sguardo su di loro segretamente segnato da un oscuro istinto di possesso. Capire: per salvarsi prima che, come per Alessandra, Michela, Sara e tante altre, sia troppo tardi. Capire: anche da parte dei parenti, degli amici, dei sacerdoti che spesso sanno del deteriorarsi delle situazioni familiari. Non follia, non imprevedibile raptus. Certe tragedie si possono intravedere, mentre maturano. Forse, alcune almeno, si potrebbero evitare.

Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it)

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