Regge su tutta la linea l’accusa nel processo di primo grado per l’omicidio di Yara Gambirasio. Un processo ad alto tasso scientifico in cui il test del dna è stato elemento fondamentale ma non unico. Alla fine Antonella Bertoja, presidente del collegio della Corte d’assise di Bergamo, le telecamere le ha lasciate fuori, anche per i quattro minuti scarni della lettura del dispositivo della sentenza che ha condannato Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio aggravato di Yara Gambirasio.
Alla fine, per contrappasso, uno dei processi più mediatici della storia recente, smontato e rimontato senza regole all’infinito nei salotti televisivi, è stato un processo a telecamere spente: una scelta certo volta a tutelare dalla sovraesposizione i riservatissimi familiari di Yara,l’imputato e la sua famiglia, ma molto probabilmente dettata anche bisogno di separare il processo vero dal clamore mediatico, di chiudere fuori dall’aula la chiacchiera da bar. Una decisione che ha risposto anche al bisogno di isolare i giudici, soprattutto i sei componenti popolari, dal rumore di fondo che in certi momenti in questa vicenda ha rasentato il tifo da stadio pro o contro, fino a perdere di vista l’essenza: la morte terribile di una ragazzina, un padre di famiglia accusato della suo assassinio.
C’era il rischio, infatti, in questo processo, in cui è in gioco il delicato dialogo tra scienza e diritto, che il rumore di fondo complicasse ulteriormente ai giudici popolari la comprensione, già complicata di suo, dell’alto tecnicismo scientifico su cui si giocavano le prove e su cui si sono scontrati i periti e i consulenti delle parti.
Al di là di quello che le motivazioni chiariranno riguardo al processo decisionale, il percorso del dibattimento lascia dedurre che la condanna sia stata fondata su quella che la pubblica accusa ha definito “prova regina”: una traccia forte di dna nucleare (21 marcatori con esito identico in quattro laboratori, quando la scienza per l’identificazione di una persona ne chiede 10-13 e lo standard forense internazionale 15-17) ritrovato sui leggins e sugli slip della ragazzina, che una complicatissima indagine a ritroso (c’era la traccia biologica di uno sconosciuto, si doveva cercare la persona cui dovesse corrispondere) ha fatto combaciare con Massimo Bossetti e che se reggerà fino alla Cassazione farà storia nel mondo.
L’esperienza insegna, però, che da sola una traccia scientificamente attendibile non fonda una colpevolezza: se trovo un’impronta digitale sul luogo di un delitto, avrò la ragionevole certezza che la persona che corrisponde a quell’impronta è stata in quel luogo, ma, per ritenerla colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, dovrò dimostrare che quella persona non avrebbe potuto lasciare quell’impronta in quel luogo in un’altra circostanza lecita, indipendente dal delitto. Per far funzionare una prova scientifica, serve infatti che i riscontri e gli altri indizi che le si sommano, siano gravi, concordanti e precisi e che il loro raffronto con l’evidenza che la prova scientifica dà ne rafforzino la probabilità.
E’ evidente che quel dna trovato sugli slip (non sulla manica di un cappotto dove avrebbe potuto magari finire anche per un contatto casuale) avrebbe avuto un peso tutto diverso se l’uomo cui corrispondeva fosse risultato residente dall’altra parte del mondo e non a pochi chilometri dalla palestra dove la ragazzina è stata vista l’ultima volta o se il cellulare del sospettato avesse agganciato al momento della scomparsa della ragazzina una cella telefonica a 2.000 km di distanza anziché la stessa che agganciava il cellulare della ragazzina prima di venire spento per sempre.
Invece, in questo caso, ogni volta che si aggiungeva un riscontro, le coincidenze finivano per rafforzare quella traccia già forte. Altre man mano ne sono arrivate: calce nei polmoni della ragazza e sferette metalliche che rimandavano a un cantiere edile (Bossetti fa il muratore), un furgone bianco uguale a quello del sospettatto ripreso più volte dalle telecamere attorno alla palestra dove è scomparsa la ragazza nei minuti precedenti e successivi alla scomparsa, le fibre trovate sugli abiti di Yara compatibili con quelle dei sedili del furgone.
Nessuno di questi elementi da solo avrebbe potuto fugare un ragionevole dubbio, ma tutti insieme hanno stretto progressivamente il cerchio attorno a Massimo Bossetti, che non aveva alibi per quella sera, convicendo la Corte a condannarlo all’ergastolo. Un cerchio che, come ha commentato la famiglia di Yara, sempre senza comparire ma tramite gli avvocati di parte civile, «ha dato un nome al colpevole, ma non farà tornare a casa nostra figlia».
Redazione Papaboys (Fonte www.famigliacristiana.it)