I giudici della Corte di Assise hanno condannato a 27 anni padre Alabi Gratien, conosciuto come padre Graziano. Il sacerdote congolese – che si è sempre dichiarato innocente – è stato ritenuto colpevole di omicidio volontario e occultamento del cadavere di Guerrina Piscaglia, 50 anni. I due avrebbero avuto una relazione sentimentale.
Quando i reati “passionali” hanno come protagonisti frati, preti e suore c’è sempre un secondo accusato. Uno che viene condannato sempre e che diventa il vero colpevole quand’anche, come in questo caso, vengono dichiarati colpevoli i frati, i preti e le suore: questo grande accusato è il celibato, cioè il fatto che i preti non si sposano. Se determinati crimini avvengono è sempre colpa del celibato. E diventa, sotto sotto, una scusante. Come se essere celibe fosse un tale peso nella vita di una persona da diventare un alibi. E così gli omicidi non si guardano più col nome e il cognome di chi li ha commessi ma dal punto di vista che “celibe è troppo”. Troppo da vivere, troppo da portare, troppo da sopportare. Ma di che stiamo parlando, direbbe Cruciani?
Come se essere fedeli in una convivenza, in un matrimonio scelto magari da ventenni, stare insieme sempre, per tutta la vita, non sia più pesante o, almeno, uguale.
Se Padre Graziano uccide, il suo celibato c’entra tanto quanto il matrimonio con Thomas Crawford (Anthony Hopkins) che uccide la moglie. Il fatto è che abbiamo bisogno di capri espiatori e di colpe ben delineate, cosicché tutto quello che ci turba, come questo delitto, lo vogliamo confinare nel magico luogo del “mai più”, un luogo inesistente dove se elimini le parti brutte della vita quella vita diventa bella e funzionante.
È come se dicessimo: togliamo il celibato ai preti e così smetteremo di avere tra loro dei potenziali assassini. Fosse così semplice. Il male si vince facendo il bene e facendo il bene con quello che la nostra vita è. Se il celibato non è scelto liberamente può essere davvero “squilibrante” ma è la mancanza di libertà il problema, non il celibato. Nessuna scelta che sia veramente e profondamente radicata nella propria identità può essere deviante di una personalità. Se scendiamo dal mondo siderale dei concetti e atterriamo nella realtà delle pareti domestiche e della vita quotidiana dobbiamo riconoscere che può essere infinitamente più complicata e difficile la vita di una persona sposata che di una celibe. Uccidiamo gli idealismi e rendiamoci conto che un celibe può, se vuole, farsi infinitamente meglio gli “affari suoi” (anche in senso negativo) di una persona sposata. La chiesa cattolica commette spesso l’errore di condire il celibato di un idealismo che, invece, dipende dall’amore non dal che cosa si fa o non si fa sotto le lenzuola (e con chi). Se bastasse far sposare i preti per non renderli assassini facciamolo subito, ma sono convinto non serva a nulla. Perché il male, dal mondo, lo toglie solo il bene.
È fare il bene davvero la vera scommessa della vita. E per quello non basta sposarsi o no.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da L’Huffingtonpost