Quel faccione occhialuto, l’eterna coppola calcata in testa e magari un megafono in mano, intento alla lettura di un volantino. Sempre in mezzo alla gente. Chi abita in Veneto almeno una volta si sarà imbattuto in una sua foto nelle pagine di cronaca di qualche quotidiano.
Perché don Enrico Torta, nonostante i suoi 78 anni suonati e una popolosa parrocchia ancora sulle spalle, non si ferma dal girare di paese in paese, tra assemblee, dibattiti e manifestazioni. Dove qualcuno protesta rivendicando un diritto calpestato, lui c’è. È noto ormai nelle terre del Nord-Est come «il prete anti-usura», per le sue battaglie contro le banche-strozzine, ma iniziò a scendere in piazza contro l’apertura dei centri commerciali alla domenica. Un giorno partì da Dese, paesino di campagna a due passi da Venezia dov’è parroco, e si presentò in Vaticano accompagnato da due commesse che lo aiutassero a spiegare l’inferno esistenziale di chi è costretto a lavorare tutte le sante domeniche. «In realtà io non mi batto contro qualcosa, ma per qualcuno», precisa: «Per la sopravvivenza della famiglia, per la dignità della persona, per affermare la civiltà. Non ce l’ho con la finanza, ma solo con quella che non è a servizio dell’uomo. Attenzione, però: chi schiaccia la dignità umana, bestemmia Dio». E i tuoni contro il «dio-denaro» sono diventati per lui una specie di mantra.
Così don Enrico Torta, classe 1938, nato in una zona popolare di Venezia, in campo San Giacomo dell’Orio, sacerdote da 53 anni, non ha ancora appeso nulla al chiodo: «Temevo la vecchiaia, ma stare con la gente e prendermi a cuore i loro problemi rallenta la sclerotizzazione del corpo», osserva.
UNA SECONDA VOCAZIONE
Così, quattro anni fa, a un anno da quella che per molti sacerdoti è l’età della pensione, don Enrico scopre il suo lato “rivoluzionario”, la sua vena di difensore delle cause sociali. «È stato un momento di grazia. La Bibbia racconta in più occasioni di vecchi che hanno avuto la capacità di ascoltare Dio e l’uomo. Al patriarca ho detto di recente: “Eccellenza, quando vuole, io lascio”. Ma lui mi ha incoraggiato a rimanere. Sapete, a Venezia c’è un proverbio che dice: “Quando i granchi scarseggiano, va ben anca le sate (vanno bene anche le zampe)”», ironizza alternando italiano e vernacolo, come fa d’altra parte anche a Messa, nell’omelia. «Io, adesso, faccio da zampa».
La versione “arruffa-popolo” del prete veneziano cominciò, quasi per caso, quando s’imbattè nei problemi delle famiglie alle prese col lavoro domenicale e dei tanti piccoli commercianti andati in rovina per la concorrenza dei centri commerciali e la liberalizzazione degli orari voluta dal governo Monti. Non parla da fine economista don Torta, ma racconta quanto vede attorno a sé: «Sono cresciuto in un posto dove tutti si conoscevano, e i piccoli negozi erano il tessuto connettivo di una comunità. Eravamo come una grande famiglia. Se chiude una bottega, lascia anche un vuoto sociale». E così cominciò a dare una mano a Tiziana D’Andrea, la donna che in Veneto ha organizzato il movimento anti-liberalizzazioni. «La domenica deve restare la giornata della famiglia. Per noi credenti, in più, è il giorno del Signore, ma questa, anzitutto, è una battaglia laica».
IL CRACK DELLE BANCHE
Poi è arrivato il disastro di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, e, con il loro crack finanziario, la beffa per migliaia di soci e correntisti che si sono trovati all’improvviso in mano azioni che erano diventate cartastraccia. «Un popolo di 200 mila tra imprenditori, famiglie e pensionati, ridotti sul lastrico a causa della mala gestione delle banche. I casi di suicidio sono stati più d’uno».
«“Abbiamo bisogno di lei, don Enrico”, sono venuti a dirmi in tanti. Così mi sono messo a disposizione e abbiamo fondato il “Coordinamento banche” che porta il mio nome, e che riunisce le tante associazioni di azionisti e risparmiatori truffati», spiega il sacerdote. Ed è diventato la voce di chi non ne ha; la speranza di chi ha perso quel piccolo gruzzolo che dava un po’ di tranquillità per la vecchiaia, o che poteva servire ai figli. «Ricevo telefonate tutti i giorni. L’ultima, quella di una figlia che ha dovuto portarsi a casa la madre ammalata e non autosufficiente, perché non ha più i risparmi necessari al pagamento della retta. Non si può stare zitti. Quando uno sbaglia, paga. E invece i risarcimenti offerti dalle banche sono irrisori e gridano vendetta, se messi vicini alle liquidazioni milionarie dei manager di questi stessi istituti». E ammonisce: «Attenzione, alcuni si uccidono, ma molti di più perdono una cosa sacra: la speranza e la fiducia nelle persone. Ecco perché, come Chiesa, non si può stare a guardare. E di fronte alla disperazione bisogna ricordare che Dio non si dimentica dei suoi figli in difficoltà».
CHIRURGO DELL’ANIMA
E la vocazione, invece, come nacque? «Da giovane, in realtà, volevo fare il chirurgo. Poi sulla mia strada s’è messo un sacerdote che mi ha illuminato: “Il mondo ha più bisogno di chirurghi dell’anima”, e sono entrato in seminario di Venezia». E lì c’è rimasto un decennio, dal 1953 al 1963. «Pativo il freddo e mangiavo solo riso in bianco, a causa di una colite. Ma ho avuto bravi insegnanti e teologi illuminati come don Germano Pattaro. E mi sono formato con la teologia del Concilio. Una stagione irripetibile, entusiasmante», confida.
Rifarebbe il prete? «Subito. A volte mi assale il dubbio se ne sono degno. Poi mi viene in aiuto ancora la Bibbia che ci insegna come il Signore si affidi spesso a mezze cartucce. Allora dormo sereno».
Fonte www.credere.it/Alberto Laggia