A capolavoro segue capolavoro, nel padiglione della Santa Sede all’Esposizione universale di Milano. Al posto dell’emozionante «Cenacolo» del Tintoretto, infatti, presente ancora per una decina di giorni (prima di tornare nella chiesa veneziana di San Trovaso), dal prossimo 29 luglio negli spazi pontifici di Expo arriva dal Museo Diocesano di Ancona un prezioso arazzo raffigurante l’«Ultima Cena», ispirato a un celebre modello di Rubens, il grande pittore fiammingo del Seicento.
Il tema, dunque, resta lo stesso anche in questa seconda esposizione: l’istituzione dell’eucaristia, dove l’offerta del pane e del vino si trasforma in cibo di vita eterna, nel corpo e nel sangue di Cristo, secondo l’interpretazione di un altro gigante della pittura europea, dalla profonda sensibilità religiosa.
Il monumentale arazzo rubensiano – misura infatti cinque metri di altezza per tre e mezzo di base – è documentato agli inizi del XIX secolo presso la chiesa della confraternita del Santissimo Sacramento ad Ancona, ma la perdita del relativo archivio non permette oggi di ricostruire esattamente quando sia stato realizzato né da chi fu commissionato. La manifattura, in ogni caso, pare riconducibile a quella prestigiosa di Bruxelles, dove Rubens stesso svolse un ruolo di primo piano nel favorire l’evoluzione dell’arte dell’arazzeria, rinnovandone i modelli secondo quello stile barocco di forte impatto emotivo e scenografico di cui fu maestro.
Proprio a Milano, del resto, presso la Pinacoteca di Brera, è conservato un magnifico dipinto dello stesso Pieter Paul Rubens raffigurante l’«Ultima Cena», che certamente può essere messo in relazione con l’arazzo marchigiano, al punto da poterlo considerare come il «prototipo». Il quadro proviene dalla chiesa di Saint Rambaud a Malines, nelle Fiandre: databile attorno al 1630, fu collocato, anche in questo caso, nella cappella del Santissimo Sacramento. Requisito poi dagli ispettori napoleonici, fu concesso nel 1813 alla neonata istituzione braidense in seguito a uno scambio di opere con il Louvre.
La tavola milanese appartiene dunque alla maturità del pittore fiammingo, e rappresenta uno dei vertici dell’arte sacra della prima metà del Seicento: motivo per cui venne ben presto riprodotta e diffusa in diverse incisioni. Gesù, al centro della scena, solleva il pane e lo benedice, lo sguardo rivolto verso l’alto e la bocca socchiusa come se stesse pronunciando la formula sacramentale ricordata da san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: «Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me». Davanti a lui, in grande evidenza, è posto anche il calice con il vino, che viene quindi «coinvolto» dall’atto benedicente del Signore.
L’ambiente stesso del Cenacolo è reso da Rubens come l’interno di una chiesa, a evocare così la celebrazione liturgica della messa. Un’impressione rafforzata dai due candelieri su un altare a destra, posti ai lati di una sorta di «messale» aperto su un passo del Salmo 111: «Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi. Egli dà il cibo a chi lo teme». Versetti che, certo non a caso, corrispondono ai primi citati nel «Decreto sull’eucaristia» emanato dal Concilio di Trento.
Facendo un confronto diretto fra la pala di Brera e l’arazzo di Ancona si possono notare alcune interessanti differenze, che dimostrano come il manufatto marchigiano, pur direttamente derivato dal modello di Rubens, non ne sia una copia pedissequa. Il calice sulla mensa, ad esempio, risulta qui ulteriormente evidenziato, fino a toccare il pane in mano a Gesù, e ponendosi così sullo stesso piano visuale. Allo stesso modo, il gesto benedicente della mano destra di Cristo appare ancor più accentuato.
Nell’arazzo, poi, si è voluto evidentemente identificare con maggiore immediatezza i due discepoli più «vicini» a Gesù, invertendo la posizione dell’imberbe Giovanni – ora alla destra del Maestro – e collocando dall’altro lato Pietro, con un volto «inedito» rispetto all’originale rubensiano, ma assolutamente consono con la tradizione iconografica del principe degli apostoli (per cui appare calvo, con i capelli e la barba bianca).
Rimane uguale, invece, la figura di Giuda nel suo voltarsi verso lo spettatore (anche se il lacerante dilemma interiore sembra diluirsi, nella replica anconetana, in una perplessità più esteriore…). Così come compare ancora, sotto il tavolo e fra le gambe dell’Iscariota, la testa massiccia e quasi minacciosa di un grosso cane: sorta di Cerbero infernale che già attende l’anima dannata dell’apostolo traditore o, più probabilmente, simbolo per contrasto di quella fedeltà che il discepolo fedifrago sta per tradire.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Incrocinews
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