Quando gli si domanda se dopo duecento anni dalla fondazione il futuro dei salesiani sia a rischio, don Ángel Fernández Artime si tira avanti sulla sedia: “Non dobbiamo mai dimenticare i giovani, e tra loro i poveri e i più bisognosi. È questa la nostra identità evangelica e carismatica. Se restiamo fedeli come lo siamo oggi, certamente lo Spirito Santo renderà possibile un terzo centenario. Altrimenti metteremmo seriamente a rischio il carisma”. Decimo successore di san Giovanni Bosco alla guida della Congregazione salesiana, don Artime viene da un villaggio di pescatori affacciato sul golfo di Biscaglia in Spagna. Per anni è stato ispettore in Argentina, dove ha conosciuto l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio – “un padre e un pastore, vero testimone dell’opzione preferenziale per i poveri” – che tra pochi giorni incontrerà di nuovo durante la visita di Francesco a Torino in programma il 21 giugno.
Un Papa argentino, con origini piemontesi, che torna a Torino dove tutto è nato per i salesiani…
Cosa vi aspettate dalle parole di Francesco?
“Saranno certamente parole di incoraggiamento e di invito a essere autentici, a non lasciare mai che un giovane possa perdere il suo indirizzo nella vita. Ci comunicherà un senso di Chiesa aperta a tutti. Noi salesiani siamo una famiglia che, in tutto il mondo, deve essere aperta. Nelle nostre opere, in 132 nazioni, lavoriamo al fianco di non credenti o persone di altre religioni e questo ci mette in dialogo con la diversità”.
Qual è il rapporto dei salesiani con il Papa?
“Per noi l’amore e la fedeltà al Papa sono una consegna ricevuta da don Bosco, sebbene tanti non ne siano a conoscenza. Per don Bosco l’amore verso il Santo Padre, come espressione di comunione con la Chiesa, era tanto grande da averlo lasciato in eredità: siamo sempre con il Papa”.
I festeggiamenti del Bicentenario coincidono anche con l’Ostensione della Sindone?
“Ringrazio di questo l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, per l’affetto verso don Bosco e Maria Ausiliatrice. È lui che ha deciso di unire al Bicentenario l’Ostensione della Sindone. Tante persone vengono a pregare davanti alla Sindone e poi si intrattengono nei luoghi di don Bosco”.
Quando don Bosco giunse a Torino, il quartiere Valdocco era una periferia. Ci sono altri Valdocco che i salesiani abitano nel mondo?
“A Juba, capitale del Sud Sudan, abbiamo un campo per rifugiati che accoglie 2mila persone. Questo è un estremo Valdocco. Ma anche durante l’ultima visita in Bolivia, Perù ed Ecuador ho potuto vedere un lavoro quotidiano con i ragazzi di strada. Don Bosco avrebbe fatto questo oggi, ne sono sicuro. In Sierra Leone, ad esempio, abbiamo avviato due case di accoglienza per 200 ragazzi che hanno perso i genitori a causa dell’Ebola. I miei confratelli, a rischio della vita, hanno scelto di rimanere lì a proseguire il lavoro. Anche in Nepal abbiamo una casa che ospita 250 ragazzi della montagna. Erano giovani persi che adesso hanno l’opportunità di crescere e aprirsi alla vita, ricevendo il senso della fede”.
E in Italia?
“Sono tanti i luoghi. In Sicilia siamo impegnati in prima linea nell’accoglienza dei ragazzi immigrati, un lavoro che svolgiamo anche in Spagna e stiamo avviando a Malta. Ma oltre a queste grandi frontiere, ci sono i problemi quotidiani che i giovani affrontano. Valdocco è anche Borgo Ragazzi a Roma, una casa aperta a chi ha bisogno. Assistenza, aiuto, formazione professionale sono soltanto alcuni dei servizi che svolgiamo lì per i giovani”.
Sul tema dell’accoglienza dei migranti, Francesco ha chiesto di aprire i conventi…
“Noi garantiamo che i grandi spazi educativi sono disponibili per tutti. Una casa salesiana deve avere le porte aperte. Alcuni confratelli, in Italia e in Spagna, condividono la comunità con giovani in difficoltà che non hanno un posto in cui stare. Sono piccoli gesti, naturalmente, che non risolvono da soli un problema sociale. Ma vogliamo rispondere anche così alla sfida del Papa”.
Cosa fanno i salesiani per essere vicini ai giovani senza lavoro?
“Crediamo nell’educazione che è il modo migliore di aiutare i giovani ad aprirsi alla vita con maggiori sicurezze, anche attraverso la formazione professionale. Siamo fortemente impegnati ad avviare al lavoro i giovani dell’Africa e dell’Asia, in particolare in India. Come ci ha chiesto don Bosco, vogliamo formare buoni cristiani e onesti cittadini”.
L’oratorio è il simbolo di don Bosco. Ha ancora un senso oggi?
“L’opera salesiana è nata nell’oratorio, che è ancora una salvezza per tanti ragazzi. Penso all’Argentina e ai giovani delle villas miserias. L’oratorio è una porta che apre a un’altra realtà. È uno spazio che aiuta a trovarsi con gli altri, a fare esperienza dei compagni, dei valori, a crescere e a scoprire Dio. Chi ha l’opportunità di stare in oratorio si arricchisce molto più di chi resta chiuso in casa. Di sicuro è più apprezzato in altre società che nella nostra, spesso troppo annoiata”.
Di Riccardo Benotti per Agensir
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