Dalla Cina all’India, dall’Eritrea all’Arabia Saudita: sono in continuo aumento le persecuzioni contro i cristiani nel mondo. Il 2015 è stato l’anno nero, con un aumento del 63% dei cristiani uccisi e più del doppio del numero di chiese attaccate rispetto all’anno precedente. L’uccisione di padre Jacques Hamel, ieri in Normandia, però, è la prima di un religioso in Europa e all’interno di una chiesa.
Roberta Barbi ne ha parlato con Alessandro Monteduro, direttore della sezione italiana di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs), Fondazione di Diritto Pontificio da 70 anni accanto ai cristiani perseguitati:
R. – Per la prima volta, per quanto ci riguarda, siamo di fronte a un chiaro attacco alla libertà religiosa e un altrettanto chiaro esempio di odio anticristiano. Non dobbiamo e non possiamo, tuttavia, indignarci soltanto nelle occasioni in cui i crimini si rivelano particolarmente efferati. In Europa, nel 2015, sono stati oltre 150 i casi di cappelle e chiese profanate, di scritte blasfeme e oltraggi di ogni tipo – appunto – a simboli della cristianità. Non ci dobbiamo stupire se da quegli oltraggi il passo successivo, poi, si concretizza nella brutalità di ciò che è avvenuto. Non ci dobbiamo stupire, perché in Medio Oriente è accaduto esattamente questo.
D. – Tra le cause di questo odio c’è il nazionalismo religioso – come nel caso dell’India – ma soprattutto l’ascesa dell’estremismo islamico. La domanda che si fanno molti osservatori è questa: tra dieci anni ci sarà ancora spazio per i cristiani in Medio Oriente, antica terra di provenienza?
R. – No, non ci sarà spazio. Basterebbe fare un mero calcolo e proiettare da qui a cinque anni – non dieci anni – quella che è la realtà dei cristiani in Iraq. Nel 2000 erano 1 milione e 300 mila; oggi sono meno di 300 mila. Lasciano quella nazione tra i 60 e i 100 mila cristiani ogni anno. Proiettiamo quei 300 mila rimasti nel prossimo quinquennio e la risposta è: no, non ci sarà più alcun cristiano in Iraq fra cinque anni, se la comunità internazionale tutta non decide finalmente, fino in fondo, di affrontare il problema.
D. – Cosa si può fare di concreto per difendere la nostra fede?
R. – Difendere la nostra fede significa andarne orgogliosi, significa rivendicarla, significa riscoprire effettivamente le nostre origini, le nostre radici. Non avere un impianto o un’impostazione bellica, ma significa riscoprire la bellezza dell’essere cristiano, del nostro essere cattolici. Forse, con un trasporto di questo tipo, un approccio di questo tipo, il dialogo con le altre religioni potrà avere uno sviluppo e una prospettiva futura di pace.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)
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