Il racconto di uno dei tanti minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia sui barconi: partito per evitare il carcere, è finito nelle mani di una rete di trafficanti ed è stato più volte maltrattato e minacciato. “Dovevamo essere molto veloci perché altrimenti ci uccidevano”
ROMA – Nell’ultimo anno sono oltre 150 mila le persone arrivate in Italia via mare, di cui 15 mila sbarcate nel porto di Pozzallo in Sicilia. Arthur è una di quelle persone, anzi è uno di quei minori stranieri non accompagnati che ha rischiato la sua vita per arrivare nel nostro Paese. Il ragazzo riferisce di non ricordare esattamente quando è partito, forse 8 mesi fa. Arthur (nome di fantasia), per aiutare il padre cieco e le due sorelle più piccole, racconta di avere acquistato una moto da un amico ma un giorno, fermato dalla polizia, scopre che la moto era stata rubata. L’amico viene condannato a dieci anni di prigione e lui, pur non essendo colpevole, è costretto a fuggire per la paura di essere accusato di complicità nel furto. E’ così che lascia la sua famiglia, la sua città in Ghana e ancora minorenne percorre migliaia di chilometri, da solo.
La Libia e poi l’Europa, sembrano essere per Arthur e per i tanti ragazzi disperati come lui, le principali mete dove andare per iniziare una nuova vita. Una fuga improvvisata e dettata dalla paura, che lo porta ad attraversare la frontiera del Ghana e ad arrivare nel Burkina Faso dove però gli vengono richiesti i documenti d’identità, che lui non ha. Sono le stesse autorità di frontiera corrotte che lo minacciano, lo maltrattano e, solo dopo avergli portato via buona parte dei soldi che gli sarebbero serviti per proseguire il viaggio, lo rilasciano.
Arthur racconta come è facile per gli stranieri in Burkina Faso venire aggrediti e derubati proprio come è successo a lui o peggio ancora essere uccisi, come è accaduto ad un suo compagno di viaggio. Ma è nella regione di Agadez, in Niger, nel mezzo del Sahara che Arthur fa il suo incontro peggiore: i “push man”. Uomini senza scrupoli che “adescano” le persone che vogliono raggiungere Tripoli promettendo di metterle in contatto con i libici che “gestiscono” i traffici delle partenze verso l’Europa, via mare. Nell’attesa di raggiungere il numero necessario per organizzare una partenza ipush man chiudono il ragazzo in una stanza, insieme ad altre persone, e una volta raggiunto il quorum lo stipano in un furgoncino in partenza per Sabha, un’importante città della Libia centro-meridionale. Durante il viaggio, in una sosta notturna, viene aggredito e picchiato senza motivo da uno di loro con un bastone ardente. Questo episodio gli provoca un’ustione al braccio della quale porta ancora oggi un segno evidente.
S
olo, senza nessuno che lo protegga, giunge infine a Sabha dove viene rinchiuso un’altra volta in una stanza nell’attesa di continuare il viaggio verso i barconi, che dalla costa libica salpano per l’Italia. I soldi con cui era partito sono ormai sono finiti perché Arthur è troppo piccolo per impedire che adulti disonesti glieli rubino, approfittando della sua innocenza. Anche il proprietario della casa dove viene segregato approfitta di lui, e lo accusa di frode, perché non avendo più i soldi per pagare la permanenza è in debito con l’uomo. Arthur, quindi, viene ricattato ed è costretto a contattare la famiglia per farsi spedire altri soldi sotto la minaccia di essere ucciso. Il ragazzo viene picchiato mentre telefona a casa, in modo che i familiari possano sentire le sue urla e convincersi a pagare il riscatto richiesto per il suo rilascio.
Lo zio riesce a inviargli 1000 dollari con un bonifico su un conto corrente intestato ai trafficanti, permettendogli così di riprendere il suo viaggio per arrivare a Tripoli. Chi arriva in questa città della Libia però si trova di fronte uno scenario di estrema corruzione, sfruttamento e traffici illegali. Una realtà che Arthur ricorda e descrive molto bene: ”Arrivato a Tripoli mi sono rifugiato in un centro dove sono stato maltrattato, picchiato, e ancora, una volta, tenuto sotto sequestro. Per uscire da questo inferno mi sono messo in contatto con un amico ghanese che ha mediato con il proprietario del centro e mi ha offerto la possibilità di lavorare per lui, per ripagare il mio debito e pagarmi il viaggio fino in Italia”.
Dopo aver saldato il debito, lavorando nella costruzione di un edificio, finalmente Arthur è partito da Tripoli per Pozzallo su una piccola barca con a bordo 120 persone “grazie” a questa rete ben organizzata di trafficanti. Una rete che dall’Africa Subshariana, secondo i racconti del ragazzo, rapisce e sequestra le persone, ricattandole, picchiandole, costringendole a lavorare gratis e mettendole infine in contatto con i chi gestisce i barconi. Del viaggio che lo ha portato in Italia, però c’è un ultimo drammatico ricordo che lo accompagna sempre: “Mentre salivamo sulla barca dovevamo rigidamente rispettare le file ed essere molto veloce perché altrimenti ci uccidevano. Due persone, nella mia stessa fila sono state assassinate prima della partenza solo perché erano troppo lente”.
Redazione Papaboys (Fonte www.redattoresociale.it/Ilaria M. Nizzo)
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