Le voci sulla possibile scomparsa della guida spirituale dei talebani si sono moltiplicate negli ultimi mesi anche se il sito web dell’Emirato islamico dell’Afghanistancontinua a pubblicare suoi messaggi, come quello di una decina di giorni, in cui si appoggia l’ipotesi di un dialogo fra gli insorti e i rappresentanti del governo del presidente Ashraf Ghani.
All’inizio dello scorso aprile, fra l’altro, i talebani hanno diffuso una lunga e particolareggiata biografia del leader in occasione del diciannovesimo anniversario della sua nomina a comandante supremo, sempre nell’ intento di smentire le voci della sua morte.
La notizia della possibile morte di Omar giunge mentre è stato annunciato per venerdì a Islamabad il secondo round di colloqui fra una delegazione talebana e esponenti del governo che dovrebbe portare all’ apertura di un dialogo di pace e riconciliazione inter-afghano.
Profilo aquilino, barba nera, viso deturpato dalla perdita dell’occhio destro, che lui stesso si sarebbe strappato dopo essere stato colpito da una granata.
Se non fosse per le poche immagini fatte circolare ad arte, il duro e puro mullah Omar, capo indiscusso dei talebani, sarebbe poco più di una leggenda.
Nessun giornalista occidentale lo ha mai incontrato, ma i suoi studenti del Corano, che seminarono terrore e morte durante gli anni dell’emirato islamico in Afghanistan, lo venerano quasi come un dio. In effetti, su quest’uomo alto, nato nel villaggio di Nodeh nei pressi di Kandahar nel 1959 da una povera famiglia pashtun e fondatore di una scuola islamica, nel tempo si sono accavallate notizie e storie di ogni tipo. Innanzitutto l’inossidabile fratellanza con Osama Benladen, compagno di battaglie nei duri anni della resistenza all’invasore sovietico.
Si racconta che proprio Osama abbia dato in sposa ad Omar la sua figlia maggiore e che abbia preso in moglie una delle figlie del mullah. Fu appunto sulle brulle montagne afghane mentre combatteva come soldato della fazione dei mujaheddin Harakat-i Inqilab-i Islami, che Omar venne ferito al volto.
Sentito il sangue colargli sulle guance, si cavò l’occhio per continuare il corpo al corpo col nemico comunista. Da allora cominciò a coprire l’orbita vuota con una benda nera. Dopo che i sovietici abbandonarono il Paese, le azioni del mullah crebbero in patria, fino a farlo acclamare come il comandante dei fedeli.
E, quando i suoi uomini si impossessarono dell’Afghanistan, nel 1996, ilmullah Omar mostrò a una folla ipnotizzata un mantello chiuso in un baule, indicandolo come quello appartenuto al profeta Maometto.
Un gesto che gli valse l’investitura di presidente de facto nei cinque lunghi anni di dittatura talebana, durante i quali il religioso-combattente si distinse per l’ applicazione radicale della sharia e per alcuni scempi culturali, come l’abbattimento delle statue di Budda scavate nella valle di Bamyan. Anche la fuga dalla sua Kandahar, quando gli americani sferrarono l’operazione Enduring Freedom nel 2001, si tinse di leggenda: il mullah sarebbe riuscito a beffare gli americani scappando in sella a un motocicletta dall’assedio di Baghran.
Da allora, nascosto tra le montagne del Pakistan o dell’Afghanistan, ha fatto perdere ogni sua traccia, malgrado la taglia di 25 milioni di dollari posta dagli Stati Uniti sulla sua testa. A parlare per lui i messaggi diffusi dai suoi seguaci e in cui esortava alla resistenza e rendeva onore ai “martiri” qaedisti.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Avvenire
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