La 20.ma Conferenza mondiale sull’Aids, che si terrà dal 20 al 25 luglio a Melbourne, sarà preceduta, sempre nella città australiana, da due incontri preparatori – uno a livello interreligioso e uno in ambito cattolico – delle organizzazioni religiose impegnate nell’assistenza dei malati e nel contrasto alla diffusione dell’Hiv. Ai lavori delle pre-conferenze di venerdì e sabato prossimi parteciperà anche don Robert Vitillo, rappresentante speciale della Caritas Internationalis per la questione dell’Aids. Sentiamolo al microfono di Marco Guerra della Radio Vaticana:
R. – Ogni due anni, la Caritas Internationalis – insieme ad altre organizzazioni cattoliche che sono impegnate in risposta all’Hiv-Aids – organizza questa pre-conferenza, prima che inizi la Conferenza mondiale. Il punto è avere un luogo dove le persone che stanno lavorando in programmi cattolici possano scambiare le loro esperienze, imparare l’uno dall’altro e specialmente le cose che veramente fanno parte della nostra identità come organizzazioni cattoliche. Il fatto è che noi rispondiamo a tutta la persona che vive con Hiv-Aids: non prendiamo queste misure a breve termine, che forse avranno anche qualche effetto, ma che non rispondono ai bisogni di tutta la persona.
D. – Ma voi, come Caritas, che cosa state osservando sul terreno in questi anni? Quali sono le sfide ed anche i risultati?
R. – Abbiamo molti programmi patrocinati dalla Caritas locale, il trattamento di appoggio economico ed anche l’organizzazione – insieme alle persone che vivono la malattia – di programmi di auto-aiuto per superare i problemi che devono affrontare a causa della loro malattia.
D. – C’è una presa di coscienza del fatto che sia necessaria anche un’educazione integrale dell’individuo che porti al contrasto del contagio?
R. – Con alcuni governi ed anche alcuni medici c’è una presa di coscienza al riguardo perché la semplice promozione del preservativo non è stata efficace per bloccare la trasmissione dell’Hiv-Aids. Sicuramente da parte della Chiesa locale facciamo molto: organizziamo programmi di educazione, specialmente per i giovani, per aiutarli a sviluppare rapporti interpersonali ma anche ad avere saggezza e maturare la consapevolezza per avere rapporti e aspettare fino al matrimonio per iniziare un’attività sessuale.
D. – Quindi un rapporto stabile continua ad essere la soluzione migliore, perché poi dove è stato diffuso solo il preservativo i risultati sono quelli che sono…
R. – E’ molto interessante perché io lavoro in questo campo da più di 25 anni. All’inizio quando parlavo – specialmente con esperti delle Nazioni Unite – di fedeltà nel matrimonio loro mi hanno risposto: “Questo non è scientifico”. Io ho risposto che in realtà è molto scientifico: se due sposi sono fedeli l’uno all’altro non c’è possibilità di trasmettere il virus. E’ vero che adesso, poco a poco, anche i governi lo sanno ed includono messaggi di astinenza e fedeltà nel matrimonio nei loro messaggi di prevenzione. Infatti, nell’ultima riunione del comitato governativo delle Nazioni Unite sull’Aids – all’inizio del mese di luglio – c’era una dichiarazione da parte dei governi africani che parlava della necessità di accompagnare i giovani per sviluppare in loro i valori culturali ma anche religiosi; inoltre, di non incoraggiare un’attività sessuale prematura per i giovani. In alcuni Paesi dell’Africa – per esempio Uganda e Kenya – già c’era questo tipo di educazione, ma c’era anche insistenza da parte dei governi del Nord – vincolata specialmente al finanziamento dei programmi di assistenza – di cambiare questo approccio. Adesso i Paesi africani stanno reagendo e dicono che devono conservare le loro culture ed anche la fede dei loro popoli.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana