Giornali, radio e televisioni fanno a gara a chi appesantisce i toni sulla “gravità” della crisi. Come psicologa, lei ritiene che la situazione sia davvero “grave”?
“La crisi sembra grave perché abbiamo tolto dal concetto di vita il concetto di ‘fatica’. La vita, in realtà, è sempre stata così impegnativa. Forse la fatica fatta dai nostri bisnonni e nonni è stata tutta un’altra cosa, più pesante della nostra. Dobbiamo riconoscere che la vita oggi è molto facilitata. Se leviamo il concetto di fatica dal nostro modo di analizzare la situazione, la crisi ci può apparire spaventosa. Con ciò non voglio negare che si tratti di una crisi comunque parecchio seria”.
Come la stanno affrontando le generazioni più giovani?
“Parlando con persone che a vario titolo si occupano del lavoro, come ad esempio coloro che fanno i colloqui di assunzione, emerge che i ragazzi si avvicinano al lavoro pensando di trovare tutto ‘pronto’. Cercano più o meno inconsciamente una diminuzione della fatica e di protagonismo per costruirsi il loro posto nel mondo. Non si rendono conto che invece, qualunque sia il livello di gravità della situazione, ci vuole una grande energia personale per riscoprire se stessi e diventare protagonisti del proprio futuro”.
Da chi possono ricevere esempi per apprendere questa capacità di “combattimento”?
“Obiettivamente, oggi appare alquanto difficile trovare adulti che sappiano leggere quello che accade nella realtà e affiancare un giovane nel suo percorso di crescita. Ciò vale in particolare per quei genitori che non sanno trasmettere ai figli la forza interiore per affrontare il futuro”.
È forse per questo che molti figli rimangono “bamboccioni”, termine un po’ offensivo, cioè attaccati alla famiglia, fino a 30-35 anni e oltre?
Non rischiamo in questa fase negativa di “perdere” intere generazioni mediane di giovani-adulti, tagliati fuori dal lavoro e dalla auto-realizzazione?
“Il rischio è presente ma, come dicevo, molto si gioca nel rapporto con genitori ed educatori chiamati ad essere ‘generatori di identità’ e non, invece, procacciatori di risposte preconfezionate. Bisogna smetterla di coccolare i giovani, facendo loro pensare che tutto sia in loro funzione. Così si creano dei piccoli dittatori che pretendono sempre di avere ciò che desiderano. Invece occorre insegnare ad essere protagonisti della propria esistenza, a lottare per conseguire quanto si sogna”.
Eppure oggi la risposta della società è: ragazzi, non c’è lavoro, accontentatevi.
“Stiamo chiedendo a una generazione di congelarsi, in attesa del miracolo. Loro non credono in se stessi, nessuno o quasi insegna come uscirne. E così si sentono e vengono di fatto ‘parcheggiati’: sono parcheggiati in famiglia, nel mondo giovanile, nelle università dove studiano a volte anche troppo fino a master all’estero sperando in chissà che cosa, parcheggiati nelle relazioni affettive senza progetto e senza fecondità. Non si sanno pensare come genitori, come padri e madri. I figli verranno chissà quando”.
Come se ne viene fuori? Forse con la bacchetta magica?
“Ognuno di questi ragazzi dovrebbe poter ricevere un dono speciale: incontrare qualcuno che lo ‘guarda’ e lo aiuta a scoprire in se stesso la persona speciale che è. Può essere un genitore, un educatore, un religioso, un amico. Fatta questa scoperta si trovano le energie profonde con le quali realizzare la persona meravigliosa che ciascuno di noi è”.
La famiglia può avere un ruolo in questo processo di personalizzazione?
“Dovrebbe assolutamente! Essa è il luogo naturale della crescita interiore della persona. Peccato che sia stata completamente espropriata di questo ruolo diventando solo luogo di cura. E invece dovrebbe trasmettere questa radice profonda di ‘chi’ sono io. Per questo io penso che occorra occuparsi seriamente della famiglia. Mi attendo molto dal prossimo Sinodo in Vaticano”.
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