Aleppo: ogni giorno fuggono venti cristiani

Inernet è bloccata da 28 giorni. I telefoni vanno a singhiozzo. Aleppo, dilaniata dallo scontro tra varie formazioni jihadiste e esercito governativo, «vive il suo interminabile Venerdì Santo in solitudine», racconta ad Avvenire Ibrahim Alsabagh, francescano della parrocchia di San Francesco Azizieh, di rito latino. Un’agonia lenta quella della città-simbolo, fino a tre anni e mezzo fa, della Siria crocevia di fedi e tradizioni. E inesorabile.

A meno di una presa di posizione della comunità internazionale che, purtroppo, stenta ad arrivare. Lo ha ricordato anche ieri la Comunità di Sant’Egidio che ha rilanciato il progetto “Save Aleppo”, promosso dal fondatore Andrea Riccardi. Un’iniziativa raccolta dall’inviato dell’Onu, Staffan De Mistura, che l’ha presentata al Consiglio di Sicurezza. Inspiegabilmente, però, le potenze europee l’hanno lasciata cadere nell’indifferenza. Nel frattempo, la comunità cristiana locale – ormai ridotta a 10-12mila persone – si dissangua al ritmo di 20 partenze al giorno. «La situazione è precipitata dopo il bombardamento del 10-11 aprile. Quella tragica notte, tra il venerdì e sabato prima della Pasqua ortodossa, i missili hanno straziato la zona di Clemaine, popolata al 99 per cento da cristiani», afferma fra Ibrahim. Sulla gente addormentata, per la prima volta, non sono piovute i “soliti” colpi di mortaio o barili-bomba, bensì dieci razzi.

«Due non sono esplosi ma il resto ha sterminato due famiglie, bimbi inclusi. E i 700 nuclei residenti sono scappati in fretta e furia, rifugiandosi da parenti, amici, alcuni sono venuti in parrocchia… La gente è rimasta terrorizzata. Da quel momento, gli espatri sono diventati quotidiani», aggiunge il francescano. Il religioso lo sa bene: «Prima di partire, vengono da me a farsi fare il certificato di battesimo o di stato libero. Dal giorno del bombardamento, ne ho firmato oltre una ventina ogni giorno».

La fuga dei cristiani – e non solo – da Aleppo non è una novità. Dall’inizio della guerra, la popolazione complessiva è passata da circa quattro milioni a meno di uno. Impossibile conoscere con esattezza il numero dei non islamici emigrati. «Un dato, però, è significativo. Prima, nelle nostre nove scuole c’erano 10.500 allievi – dice fra Ibrahim –. Ora sfiorano i 2.500. Dopo il raid, inoltre, le lezioni sono state interrotte. I genitori hanno troppa paura, non vogliono mandare i ragazzi in classe. Pensano solo a scappare».

«Chi ha i mezzi è già andato via o sta per farlo», racconta padre Elias Janji Yechiche, vice-parroco della Cattedrale di rito armeno cattolico. Tanti, però, non hanno le risorse per emigrare. Il conflitto ha travolto l’economia cittadina, facendo finire sotto la soglia di povertà il 70 per cento degli abitanti. Questi ultimi, in miseria, bussano incessantemente alle porte di chiese e conventi. Non solo i cristiani. Anche gli islamici vengono ricevono assistenza da parte degli enti cristiani. Nella scuola di padre Elias, ad esempio, il 60 per cento degli studenti è musulmano. Segno di quel «dialogo interreligioso dei fatti, prima ancora delle parole» che ha sempre caratterizzato la città. E che la guerra non è riuscita a distruggere.

Ancora. «Le due comunità convivono da sempre. Non è la gente ad essere intollerante bensì alcuni gruppi che manipolano la religione per altri fini», conclude il sacerdote.

Ad Aleppo ce ne sono molti. Difficile orientarsi nella galassia islamista che tiene sotto controllo metà della città. E da lì non filtra alcuna notizia. «Ormai, l’attività caritativa ci assorbe quasi completamente. Sono arrivato cinque mesi fa. E in questo lasso di tempo il numero degli assistiti è raddoppiato», sottolinea fra Ibrahim. Eppure il problema principale non è nemmeno ormai la povertà dilagante. «La gente non aspira neppure più a una vita degna. Vuole solo sopravvivere. Ma diventa ogni giorno più difficile».

Di Luca Capuzzi per Avvenire

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