Lo straordinario dono del credente è quello di fare buon uso anche dei non credenti per arrivare alla luce della fede». Alessandro D’Avenia, scrittore di bestseller amatissimi tra i giovani e gli adolescenti (da Bianca come il latte, rossa come il sangue a Cose che nessuno sa e Ciò che inferno non è, tutti editi da Mondadori) ha scelto la figura e l’opera di Giacomo Leopardi per il suo ultimo libro (L’arte di essere fragile, sempre con l’editore che lo ha lanciato).
Rivolgendosi idealmente al poeta di Recanati condensa l’esperienza dei suoi incontri in giro per l’Italia con una generazione, quella dei ragazzi italiani, molto difficile da capire e interpretare. Una generazione che è una domanda piena di domande, potremmo dire. La prossima sfida del “professore più amato d’Italia” sarà quella di rappresentare il volume sul palco, nel corso di una tournée teatrale per le principali città italiane (Milano, Palermo, Torino, Roma, Napoli, Verona, Genova e Bari). Lo scrittore terrà una lezione-monologo in una classe senza muri che avrà Google come lavagna elettronica, simbolo della difficoltà di orientarsi nel cyberspazio delle voci e delle informazioni.
Professor D’Avenia, questa generazione che “vuole testimoni prima ancora che maestri”, che futuro può avere?
«Il libro nasce dall’aver sentito nella mia vita e nelle persone che incontro tutti i giorni questa fragilità che il tempo di oggi ci costringe a riconsiderare. Proprio perché è un tempo rapido, veloce, in cui bisogna essere bellissimi perché tutto è basato sul risultato, noi abbiamo un bisogno folle da ritrovare».
E qual è questo bisogno?
«Quello di tornare al primato che il cristianesimo ci ha donato, il primato della persona. La modernità come primato ha il risultato, invece nel cristianesimo quello che conta è la persona come punto di origine e come punto di arrivo di tutta l’esistenza. I tempi difficili, duri, come quello dei nostri giorni, ci sono stati in ogni epoca umana. Non dobbiamo nemmeno fare troppe tragedie, forse stiamo semplicemente rivedendo uno stile di vita cui eravamo abituati, uno stile un po’ troppo autoreferenziale ed egoistico. Sembra che crolli un mondo, in realtà è semplicemente un mondo che ci sta trasformando. Io mi sono detto: siamo sicuri che se va in crisi l’esteriorità deve andare in crisi anche l’uomo? Non sarà che c’è un elemento da rafforzare?».
Cosa c’è da rafforzare?
«L’elemento vocazionale che c’è nella vita dell’uomo. Michelangelo nel suo Giudizio universale ci ha raccontato che Dio chiama l’uomo con un tocco e sulla punta del dito di Adamo segna la sua originalità, cioè la sua origine e anche il suo futuro. Oggi siamo immersi in un mondo digitale e abbiamo risolto quel contatto nel contatto col nostro cellulare. Forse dobbiamo ritrovare un elemento più grande che ci restituisca il nostro stare al mondo con una carica che non si spegne mai. Se è vero, come è vero, che ogni vita è una chiamata di Dio ad aggiungere uno strumento alla polifonia del mondo, io sono convinto che quello di cui abbiamo bisogno è capire quale strumento ciascuno di noi sia in questa grande polifonia. Una cosa di cui hanno bisogno soprattutto i ragazzi».
Leopardi non era credente, in letteratura lui e Machiavelli sono i due principali simboli del laicismo. È un po’ sorprendente che sia stato preso come esempio di religiosità…
«Intanto Leopardi non è il simbolo del laicismo, ma della laicità. È un uomo che ha approfondito fino in fondo tutti i campi del sapere alla ricerca della verità. Questo riguarda ogni uomo, credente o no che sia. Io in Leopardi ho trovato un gradino fortissimo, direi granitico, di questa ricerca. Lui, come nel mondo greco, è convinto di un fatto: che la bellezza sia sempre la manifestazione del vero e del buono messi insieme e che bisogna indagare per andare a capire quali sono questo vero e questo buono. Tanto che con il cuore Leopardi percepisce che c’è questa bellezza, la vuole afferrare, poi con la testa la vuole indagare. Credo che Giacomo Leopardi sia l’uomo grazie al quale credenti e non credenti possono parlarsi andando alla ricerca di senso. Perché c’è una religione della bellezza che tutti possiamo accettare e creare che ci accomuna tutti. Se poi ci porterà a trovare Dio, per me tanto meglio. Altrimenti avremmo fatto qualcosa di bello al mondo, come dice lui stesso».
Alla domanda “come fai a credere in Dio” che le fanno molti studenti, il professor D’Avenia come risponde?
«Noi oggi pensiamo che la parola vocazione riguardi una specie di chiamata che viene dall’esterno e aggiunge qualcosa alla nostra vita. Niente di più sbagliato. La vocazione è la vita. Se entriamo in questa prospettiva, che Dio – fuori dal tempo – prima ha pensato a ciascuno di noi e poi ci ha dato l’essere per realizzare quel progetto, il gioco è fatto. Questa chiamata, certo, avviene per un essere che è fragile. Ma è anche l’invito a fare qualcosa di bello, trasformare quello che potrebbe sembrare un destino in destinazione, in una fioritura, in un’opera d’arte. Più vado avanti più mi rendo conto di questo. Dio non è una cosa che si aggiunge alla vita, è la vita stessa che fiorisce. Se penso a questo, dico: Dio, io senza di te non posso stare. Nel cristianesimo ho trovato l’antidoto per la noia. L’unico che io conosco. Una vita che è affidata totalmente a te e totalmente a Dio».
Redazione Papaboys (Fonte www.famigliacristiana.it/Francesco Anfossi)
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