Alfredo Cremonesi è finalmente beato: martire della carità
“Noi missionari non siamo davvero nulla. Il nostro è il più misterioso e meraviglioso lavoro. Vedere anime che si convertono: un miracolo più grande di ogni miracolo”. Scrive così, nel suo diario, un giovane Alfredo Cremonesi che ha da poco concretizzato la sua vocazione di partire missionario nel 1925, con una vitalità e un entusiasmo che non perderà mai, in nessuno dei giorni che comporranno i 28 anni passati in quella terra lontana, prima di esservi ucciso in odio alla fede, il 7 febbraio 1953. Eppure il percorso per arrivare fin laggiù non era stato facile: di salute cagionevole fin da piccolo, più volte, seppur frequenti un seminario missionario, viene scartato. E allora si dedica alle lettere: scrive poesie e perfino un dramma teatrale che ha per protagonista un missionario. Perché il suo sogno è sempre lì, nel suo cuore, che aspetta il momento giusto per realizzarsi.
Come ogni cristiano, Alfredo ha un’arma segreta: la preghiera, intensa, vera, che allieta ogni attimo libero della sua giornata; ben presto scopre di avere anche un’alleata potente, lassù, in cielo: Santa Teresa del Bambino Gesù. La invoca quando è malato di linfatismo e lei lo guarisce; inoltre lo aiuterà più volte anche in Birmania, come egli stesso testimonierà. “È interessante accomunare padre Alfredo Cremonesi con Santa Teresa del Bambino Gesù – sottolinea il cardinale Angelo Becciu – perché tutti e due hanno la passione per le missioni. Sappiamo che Santa Teresa è stata anche proclamata Patrona delle missioni: lei, rinchiusa in monastero, aveva però questo desiderio di diffondere Gesù nel mondo intero”.
Il sogno inizia a Napoli, il 16 ottobre 1925. Alfredo si imbarca sulla nave che lo porterà in Birmania, una terra che più remota e lontana non poteva immaginarne, destinazione Taungngu, a lavorare tra i Karennì, la popolazione dei Cariani rossi. Non sa che ci rimarrà per 28 anni, ma è determinato a non rimettere più piede in patria, quindi prima di salpare saluta i suoi genitori per l’ultima volta con una formula comune a molti missionari: “Ci vedremo in Paradiso!”. Una scelta radicale, la sua, che ci viene spiegata dal porporato: “Una volta partiti, i missionari di allora, non tornavano più o se lo facevano era dopo molti anni. Erano uomini di Dio, persone che credevano! Avevano dato la loro vita per la diffusione del Vangelo! Perciò se in Africa o in Asia o in altri posti abbiamo dei cristiani lo dobbiamo al sacrificio di questi uomini così generosi”.
Dopo un’esperienza a Yedashé, nello Yoma occidentale dove predica tra le popolazioni pagane ottenendo molte vocazioni, padre Cremonesi viene trasferito a Donoku. Intanto scoppia la Seconda Guerra Mondiale , che presto, con la sua violenza e la sua miseria, arriverà anche qui, sovrapponendosi a una situazione già di povertà e precarietà. Per anni, come si legge nel diario del sacerdote, mancheranno a tutti il pane, lo zucchero, ma ancora di più le strade per arrivare nei villaggi più sperduti, e la libertà di poter diffondere la Parola senza rischiare la vita ogni giorno. Il “moto perpetuo” – come era soprannominato padre Cremonesi – sarà sfiancato dalla fatica e dalla malaria, ma non rinuncerà mai alla sua missione, anche quando, con l’entrata in guerra dell’Italia accanto alla Germania, è visto come un nemico e rischia di essere internato in India. Viene, invece, spostato a Moshò, nel nord del Paese, dove soffre il freddo e la fame accanto a quella che considera ormai la sua gente.
Nel 1948 la guerra finisce e la Birmania ottiene l’indipendenza dall’Inghilterra. Ma un altro conflitto è in agguato, ancora più duro. I contrasti tra i gruppi etnici meno rappresentati nel nuovo Parlamento sfociano presto in una guerra aperta e fratricida in cui sono coinvolti soprattutto Cariani e Birmani. Donoku viene assalita dai ribelli e padre Cremonesi è costretto a riparare nella foresta. Tornerà due anni dopo, ma la pace è ancora soltanto un miraggio in questa terra martoriata dove non è rimasto più niente da saccheggiare, niente da rubare. Eppure i governativi fanno di nuovo irruzione nella cittadina. Sono a caccia di ribelli, ma è di sangue che hanno sete. Padre Cremonesi sembra calmarli, ma quando decidono di ritirarsi, cadono in un’imboscata e tornano indietro, accecati dall’odio e dalla vendetta. Padre Cremonesi è uno dei primi a cadere. Perché è straniero, ma soprattutto perché è cristiano. Gli sparano in faccia, con furia, poi devastano la chiesa e incendiano la missione.
I testimoni parlano di una violenza inaudita degli assassini di padre Cremonesi, che quel giorno a Donoku fanno una vera e propria strage. Il sacerdote viene raggiunto dai colpi di fucile mentre prega. L’indomani, quando la situazione si sarà calmata, alcuni fedeli ne prenderanno il corpo per seppellirlo, tagliandogli un po’ di barba e qualche frammento della camicia intrisa di sangue da spedire ai genitori in Italia, ma anche da conservare come reliquia. Sì, perché per la sua gente, quella gente con cui padre Cremonesi ha condiviso tutto: speranze, gioie, ma anche amarezze e dolori o pericoli, lui è già un martire e la forza dei martiri è così potente da poter essere riconosciuta immediatamente da tutti, come conclude il Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi: “L’intuizione della gente sa riconoscere i bravi preti, le brave religiose, i buoni laici, e soprattutto sa riconoscere chi si dedica e si dona totalmente agli altri. E padre Cremonesi era uno di questi”.
Fonte Vatican News – Roberta Barbi
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