Uno dei problemi più importanti è rappresentato dall’emigrazione che, con passi lenti ma sicuri, minaccia addirittura “la scomparsa dei cattolici”. I numeri non lasciano speranze: mentre prima della guerra nel Paese si contavano 740.726 cattolici, oggi ne sono rimasti circa 400mila e ogni anno 15mila fedeli scompaiono dall’anagrafe.
Una situazione complicata, che non cambia da anni, e che anzi è peggiorata dalla fine della guerra nel 1995. È quanto emerge dalle conclusioni dei vescovi della Bosnia ed Erzegovina che recentemente hanno terminato la loro 70ª assemblea plenaria. Uno dei problemi più importanti è rappresentato dall’emigrazione che, con passi lenti ma sicuri, minaccia addirittura “la scomparsa dei cattolici”, secondo il presidente dei vescovi, cardinale Vinko Puljic.
I numeri non lasciano speranze: mentre prima della guerra nel Paese si contavano 740.726 cattolici, oggi ne sono rimasti circa 400mila e ogni anno 15mila fedeli scompaiono dall’anagrafe.
“Le ragioni sono complesse – spiega mons. Tomo Vuksic, ordinario militare della Bosnia ed Erzegovina – in parte questo calo è dovuto all’emigrazione, soprattutto giovani in cerca di un lavoro migliore; ma esiste anche il problema dei profughi e di coloro che furono cacciati dalle proprie case, in totale circa il 67% dei cattolici”. Il presule afferma con amarezza che “da parte delle autorità, a tutti i livelli, non c’è stata una ferma volontà di favorire il rientro di queste persone”. Ciò si avverte particolarmente in alcune diocesi con presenza significativa dei cattolici, come Banja Luka, dove gli sforzi del vescovo locale mons. Franjo Komarica di ricostruire le case dei pochi cattolici che sono tornati vengono ostacolati in ogni modo. Tutto questo accompagnato da una situazione sociale difficile, con la disoccupazione tra il 30 e il 40%, quella giovanile al 60%, molte fabbriche chiuse, corruzione della classe dirigente e un quadro politico statico da ormai 25 anni che non dà nessuna speranza di cambiamento alla gente. “Il salario medio è di 800 marchi, pari a 450 euro, e la povertà si nota soprattutto nelle grandi città – racconta mons. Vuksic -. Moltissimi bisognosi si rivolgono alla Caritas, che purtroppo non riesce a dare una mano a tutti. Lo Stato dovrebbe trovare la forza politica e soluzioni adeguate per far fronte a queste situazioni”.
L’accordo di Dayton. Un problema di base è rappresentato dall’accordo di Dayton imposto dagli Usa alla fine della guerra che suddivide il territorio nella Repubblica Srpska, dove risiedono i serbi-ortodossi, e nella Federazione Bosnia ed Erzegovina, dove vivono i bosgnacchi-musulmani. I croati-cattolici, che rappresentano il 15% della popolazione, si trovano in ambedue le parti, ma secondo la Chiesa cattolica in pratica non hanno gli stessi diritti degli altri due grandi gruppi etnici. “La composizione del Paese è creata a scapito del terzo gruppo etnico, i croati”, afferma mons. Vuksic: “Anche se nella Costituzione i diritti dei croati sono garantiti, in pratica molte volte questo non succede soprattutto nell’elezione dei loro rappresentanti negli organi di governo. È successo che i bosgnacchi eleggano a loro scelta il rappresentante dei croati. E questo si pratica dal livello più alto della presidenza, a tutti gli altri gradi inferiori della autorità locali”. Così si creano i presupposti per le tensioni sociali ed è ferito anche l’orgoglio dell’intera comunità croata che perde la voglia di lottare e di essere parte attiva nel processo politico. Un esempio concreto della posizione inferiore dei croati è il fatto che solo il 3 o 4% del totale degli aiuti da parte della comunità internazionale sono stati destinati ai cattolici. I vescovi, però, non si rassegnano e apertamente denunciano la non uguaglianza e la mancanza del rispetto dei diritti per i croati.
“Naturalmente questa verità è scomoda per alcuni e vogliono far tacere la Chiesa”, spiega mons. Vuksic. Il cardinale Puljic parla addirittura di “un clima che si è instaurato nell’ultimo periodo, opera di una strategia malvagia che sta cercando di mettere a tacere la Chiesa”, muovendo contro di essa o contro i suoi vescovi false accuse.
C’è una via d’uscita, una ricetta per andare avanti? La risposta è difficile, ma mons. Vuksic vede la Bosnia ed Erzegovina come “un piccolo grande complesso, è difficile analizzare la situazione e la sfida di trovare una soluzione, che accontenti tutti, è veramente grande”. A suo avviso, “si dovrebbe partire a livello politico e sociale da quel principio costituzionale di diritti uguali e applicarlo a tutti i livelli nell’organizzazione dello Stato”. Altrimenti, spiega, “si crea una disparità ingiusta: bisogna che i beni sociali siano disponibili per tutti, non solo nel senso materiale ma anche politico, culturale, ecc.”. Nella speranza che 22 anni dopo la fine della guerra, questa terra trovi davvero una via sicura verso un avvenire migliore per tutti: bosgnacchi, serbi e croati.
Fonte agensir.itSofia, Iva Mihailova
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