«La folla lo seguiva, anche per la fama, che egli aveva provocato con la resurrezione di Lazzaro». Questa è l’euforia che Giovanni rievoca, raccontando l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (12, 12-19), descritto al dettaglio da Matteo (21, 1-11): «Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me. Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa, risponderete:
Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito”. Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: dite alla figlia di Sion: ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma. I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava: Osanna al figlio di Davide!».
Il racconto di Matteo, ripreso più sinteticamente da Marco (11, 1-11) e da Luca (19, 28-38), ebbe grande fortuna nella letteratura, ma soprattutto nell’arte, tanto è vero che quando si pensa a questo festoso episodio, il pensiero corre al suggestivo affresco di Giotto nella cappella padovana degli Scrovegni, ma subito dopo viene in mente il sontuoso quadro dipinto da Pietro Lorenzetti tra il 1310 e il 1319 nella basilica inferiore di San Francesco d’Assisi e, segnatamente, nel transetto sinistro della basilica, nell’ambito delle storie della Passione di Cristo.
L’affresco recupera l’iconografia tradizionale della scena, che, come vedremo, affonda le sue radici nell’arte paleocristiana. Ma il capolavoro assisiate — che sembra proporre una sorta di tridimensionalità, intrecciando due punti di fuga, l’uno che ha come vertice il Cristo, che avanza, da sinistra, seguito dagli apostoli, l’altro costituito dalla porta urbica di Gerusalemme da cui esce tutta la popolazione — è ricco di dettagli e preziosità, che definiscono il modello di Giotto e anticipano certi minuziosi accorgimenti che Ambrogio Lorenzetti inventerà per gli Effetti del Buon Governo, realizzato tra il 1338 e il 1339 nel Palazzo Pubblico di Siena.
Ma lasciamo la civiltà figurativa del medioevo per cercare le radici della scena dell’ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme.
La ricerca ci fa rimontare all’età costantiniana e alla produzione di alcuni sarcofagi concepiti da un atelier romano, che mostra nei fregi continui delle fronti scolpite, il Cristo rappresentato come un fanciullo vestito di tunica e pallio, il quale incede verso destra sul dorso dell’asina, cavalcando all’amazzone e facendo il gesto della parola. Lo schema ripropone quello adottato nell’arte classica per l’aulico adventus imperiale, proprio con l’intento di mettere a confronto il solenne e trionfale arrivo dell’imperatore stante sul carro con il festoso ingresso del mite Christus rex, che cavalca un’asina e mostra la fisionomia di un innocuo bambino, sospeso nel tempo e nello spazio, infondendo alla scena quel significato epocale che vuole anticipare quella passio Christi, vera e propria felix culpa, paradossale richiamo al peccato dell’origine, che preparerà la morte e la resurrezione del figlio dell’uomo.
Nei sarcofagi del IV secolo, il Cristo fanciullo, in sella all’asina, che, spesso ha tra le zampe quel puledrino, a cui allude Matteo, è attorniato dagli apostoli e da un ragazzo che stende il mantello. Tra la folla emerge un giovane arrampicato su una pianta, da riconoscere come il piccolo pubblicano ebreo Zaccheo, salito sul sicomoro per vedere Gesù a Gerico, nell’episodio, narrato da Luca (19, 1-6) e accaduto subito prima dell’ingresso a Gerusalemme. Questa assimilazione, molto cara anche ai produttori di sarcofagi provenzali, nell’ultimo scorcio del secolo IV, torna nel sarcofago del prefectus Urbi Giunio Basso, riferibile al 359, giustamente considerato il gioiello dell’arte paleocristiana e ora conservato nel Museo del Tesoro della Basilica di San Pietro in Vaticano.
Il tema spunta anche nella produzione pittorica paleocristiana, come in un affresco della catacomba siracusana di Vigna Cassia, ancora del secolo IV, e nell’ipogeo di Santa Maria in Stelle, nell’hinterland veronese, già nel secolo V. Una certa fortuna dell’episodio si riscontra anche nelle arti minori e segnatamente in alcuni dittici eburnei del V secolo e in una formella della cattedra ravennate di Massimiano, da riferire all’età giustinianea. In età bizantina il trionfo del Cristo che entra a Gerusalemme si diffonde capillarmente nei codici miniati. Fu forse per il tramite di queste bibbie miniate che il festoso ingresso di Cristo in Gerusalemme fu traghettato nei programmi decorativi dei più prestigiosi edifici di culto del medioevo, con l’intento di ricordare il trionfante adventus del Cristo fanciullo, giovane, puro, senza macchia, come un piccolo agnello pronto al sacrificio.
di Fabrizio Bisconti per L’Osservatore Romano, 29 marzo 2015.