Mariano è moldavo, dormiva in stazione a Benevento e adesso, da mattina a sera, aiuta gli sfollati del Sannio e chi nei paesini è rimasto senz’acqua, né luce e spesso isolato. Danilo (nome di fantasia, ndr) ha sei anni ed è stato tra i primi a venire alla Caritas quando mamma e papà gli hanno detto che vi sono ospitate diverse famiglie: «Ho portato i miei giocattoli ai bambini – ha detto – vorrei darglieli».
Gli è stato risposto che dormivano, lui c’è rimasto un po’ male, ha fatto abbassare l’operatrice che l’aveva accolto è le ha sussurrato all’orecchio «mannaggia, ho portato anche il mio barattolo di Nutella, nemmeno l’ho ancora aperto ». Mariano e Danilo sono due gocce di quella che la Caritas beneventana ha chiamato «l’onda umana della fraternità» arrivata dopo quella terribile di acqua e fango e massi abbattutasi da queste parti.
Sarebbe a dire quasi ottocento volontari più una quarantina di ragazzi in servizio civile, undici professionisti (cuochi, avvocati, tecnici) e trenta donne e uomini del personale Caritas. Necessari perché il primo bilancio dei danni a Benevento e soprattutto nell’alto Sannio è durissimo: centinaia di sfollati, milleduecento persone col posto di lavoro a rischio (perché le loro aziende sono state devastate), settecento chilometri di strade provinciali inagibili e, appunto, sei o sette paesini isolati, alcuni dei quali senz’acqua né luce e molti ponti distrutti.
L’onda della fraternità ha portato anche una discreta cifra: 40.113 euro donati fin qui da trecentodieci persone. «Abbiamo già ricomprato la macchina a un papà col figlio disabile, che l’aveva persa e non sapeva più come fare – racconta don Nicola De Blasio, che dirige la Caritas di Benevento –. Un altro papà con figlio disabile di Caserta quando ha saputo ci ha venduto la sua, che non gli serviva più. Naturalmente a un prezzo stracciato. Così abbiamo speso i primi novecento euro». Stiamo parlando e smistando scatoloni e vestiti e saponi e arriva un ragazzo di ventisette anni. Vuol fare un’offerta. Cinquanta euro. Don Nicola lo guarda, poi gli chiede «ma tu quanto guadagni» e lui timidamente «settecentoventi euro al mese». Il prete stacca la ricevuta, ma prima di dargliela lo avvicina sorridendo e gli fa: «Stai facendo davvero un grosso dono. Grazie».
A sera saliamo a Paupisi, piccolo centro colpito con violenza feroce dall’alluvione. Portiamo la cena a centocinquanta persone e da lì riporteremo a Benevento sette volontari giovanissimi che aiutavano da stamane. Guida il furgone Antonio Pinto, è sposato con tre bambini, sfollato e non ha mai fatto volontariato: «Mi trovo nella condizione di dormire alla Caritas e sinceramente non mi andava di starmene in camera a guardare gli altri che si danno da fare per me e allora ho deciso di dare una mano per quanto mi è possibile, cercando di smistare il cibo e andare nelle zone dove è più difficile arrivare». A proposito di Paupisi: «Non so quando torneremo alla normalità – spiega il sindaco Antonio Coletta – so che per farlo sarà necessario lo stanziamento dei fondi che serviranno a rimettere le cose a posto dopo questo cataclisma che ci ha colpiti. Diversamente credo che non ci torneremo mai».
Le strade a tratti ancora sono coperte da fango e pietre, muri sono abbattuti, certe case sono state sfondate dai macigni “piovuti” dalla montagna e che sono rimasti lì dentro. Vitigni, ai lati, scorrono tragicamente abbattuti e si dice che, ad esempio, ci vorranno almeno quattro anni perché si possa imbottigliare nuovamente la Falanghina del beneventano. Marco Mariniello, ventiduenne, è ricoperto di fango dai piedi fino alla cima dei capelli, che ha spalato da stamattina, dopo averlo fatto già ieri: «Stiamo cercando di aiutare queste persone disagiate». Perché lo fa? «Io non ho avuto problemi, le ondate non ci hanno sfiorato, e allora è giusto aiutare».
La scuola “Giuseppe Moscati” era il fiore all’occhiello degli istituti scolastici di Benevento. Moderna, bella, ritinteggiata da qualche settimana. Adesso il suo piano terra, enorme, mette i brividi. Il fango l’ha morsa fino a un metro e mezzo d’altezza, lo si vede dal segno che ha lasciato sui muri. Fuori, accatastato, mentre una ruspa lo carica su un camion, c’è di tutto. Un pianoforte, attrezzi ginnici, registri e libri, un paio di telefoni, lavagne e sedie. Tutto spaccato, gonfio e marrone. Da buttare. Alla vicepreside, Elena Stanzione, vien quasi da piangere guardando. Ma «la collaborazione dei volontari è stata commovente, a cominciare dai nostri ex alunni e dai ragazzi del rugby – racconta –. La vicinanza delle persone che hanno vissuto in questa scuola è stata emozionante».
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Pino Ciociola)
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